Le regioni onnipotenti hanno ucciso il meridionalismo. O loro o il sud
Sul Corriere della Sera di ieri Ernesto Galli della Loggia parlava di addio al Mezzogiorno. Nel senso che la centralità sempre maggiore del tema della legalità non può che implicare disattenzione al Mezzogiorno. All’attuale presidente del Consiglio Galli della Loggia arrivava a domandare “se conosce appena un poco quella parte del paese”.
La verità è che contro il Mezzogiorno opera indisturbato da più di mezzo secolo il cosiddetto fronte delle regioni e più in generale delle autonomie locali. Ed è merito dell’articolo di Galli della Loggia averlo segnalato in termini assai meno diplomatici di quelli abituali al Corrierone.
Da quando le regioni esistono, il meridionalismo è scomparso. Se e quando lo si resuscita, è soltanto retorica di maniera. Lo rilevò nel 1993 Gerardo Chiaromonte nel suo ultimo intervento in Senato. Avversario storico negli anni cinquanta dell’intervento straordinario al fianco di Giorgio Amendola, Chiaromonte volle in quel discorso tracciare un bilancio di quelli che gli parevano i limiti del nostro regionalismo: cupidigia di gestione contro capacità di programmazione, frammentazione della questione meridionale in tante rivendicazioni territoriali. L’idea che i finanziamenti al sud, gli appalti, i grandi servizi “pubblici” come la Sanità fossero materia da rimettersi a politici e amministratori espressi dal sud era idea che a Chiaromonte sembrava una bestemmia. Forse, non gli avrebbe fatto neppure piacere vederla prevalere nella riscrittura della Costituzione.
[**Video_box_2**]Quando nel primo dopoguerra si era creduto che, sconfitta la minaccia secessionista, si potesse investire il mezzogiorno di un vasto programma di interventi infrastrutturali, in vista di un processo di sviluppo, proprio perché le risorse finanziarie dovevano essere nazionali, cioè sottratte alle aspirazioni e negoziazioni locali, i comunisti si erano sentiti troppo gramsciani e troppo antidegasperiani per far propria tale politica. Talvolta si erano opposti troppo poco e ne avevano pagato prezzi alla loro sinistra. Su una questione meridionale degradata a questione regionale Galli della Loggia fa bene a picchiare. Se dal 1970 la si interpretò così, fu per avidità di un ceto di potere locale, proteso a metter esso le mani sulle risorse in termini di “acquisività politica” (espressione coniata da Max Weber e ripresa da Luciano Cafagna). La migliore stagione dell’intervento straordinario, anteriore al fatidico 1970, fu condannata dal moralismo di massa, da sempre troppo indulgente con le storture del regionalismo. E’ stato il regionalismo a rendere impensabile e impraticabile il meridionalismo. Se si volesse far rivivere il secondo, toccherebbe prendere risolutamente le distanze dal primo. “Il mezzogiorno – ha ragione Galli della Loggia - è sparito e il suo posto è stato preso dalle regioni meridionali”. In tempi di Italia giolittiana, era quel che temeva lo “statalismo” di Giustino Fortunato. Già questa estate era affiorato un particolare inquietante. Dopo una sentenza della Corte costituzionale sulla contabilizzazione dei prestiti ricevuti dallo stato, il disavanzo delle regioni aveva superato i 20 miliardi. Si sarebbe poi provveduto a sanarlo con apposito decreto legge. Talvolta, la cronaca sa essere più impietosa della storia, non meno della storiografia.