Matteo Renzi e Beppe Grillo

Sangue e merda, oggi

Salvatore Merlo
Ovviamente si comincia con Quarto e Beppe Grillo, con l’ideologia e la religione della trasparenza, con la trappola morale e con l’ingenuità, con il mito sempre infranto della purezza e quello invece roboante ma inconcludente della protesta.

Roma. Ovviamente si comincia con Quarto e Beppe Grillo, con l’ideologia e la religione della trasparenza, con la trappola morale e con l’ingenuità, con il mito sempre infranto della purezza e quello invece roboante ma inconcludente della protesta “che non può essere politica”, dice, “perché la politica è mediazione dei conflitti e dei contrasti. E se stai nelle istituzioni non puoi mica protestare, devi governare”. Ma dopo un po’, ascoltandolo, si capisce che a lui il Movimento di Grillo sta forse meno antipatico di quanto non sarebbe lecito immaginarsi, o forse considera i cinque stelle un epifenomeno trascurabile, chissà, come una nuvola destinata a essere portata via dal vento: è con Renzi che lui ce l’ha di più. E allora è sul nome del presidente del Consiglio che Rino Formica calca la voce e anima il suo corpo di ottantanovenne rapido e ben conservato, perché “la riforma costituzionale di Renzi è inutile”, si accende, “è persino dannosa. Io voterò ‘no’ al referendum. Ma senza aderire al comitato per il ‘no’, perché io non sto mica con gli immobilisti alla Zagrebelsky, e non coltivo nemmeno feticismi costituzionali. Tutto il contrario. Penso però che prima della seconda parte della Costituzione bisogna modificare la prima, che è già stata consegnata all’obitorio con i trattati internazionali. Bisogna modificare quella parte della Costituzione che stabilisce le norme vincolanti sui diritti sociali e politici, quelle regole ideali che adesso sono state superate, affidate al vincolo estero o al vincolo di bilancio”.

 

E sembra che lui, due volte ministro delle Finanze, con Spadolini e con Andreotti, poi ministro del Lavoro tra il 1987 e il 1989 nei brevissimi governi Goria e De Mita, adesso guardi con un certo partecipe dispetto il formicolio della politica contemporanea, la politica come gioco intellettuale e ginnastica del pensiero, passione e umori, una malattia dalla quale non si guarisce mai, nemmeno alle soglie dei novant’anni. “Guardi”, dice accompagnando le parole con un’ombra di sorriso, “dopo Mani Pulite solo una classe politica di coglioni poteva accettare il perpetuarsi della rivoluzione giudiziaria, accontentandosi degli onori formali del potere”. E questa è la spiritosa premessa, sta a monte di tutto, tutto precede e tutto filtra, come un paio di lenti attraverso le quali Formica osserva con un certo acuto cinismo, appena incrinato da una nota di bonario disprezzo, la pazzotica realtà dell’Italia istituzionale. Sangue e merda, diceva lui un tempo, “e intendevo dire passione e contaminazione”. Quella contaminazione che Grillo, per esempio, vuole sfuggire. “Ma nessuna forma di potere può rinunciare a confrontarsi con il male”. E allora Grillo dovrebbe studiare Andreotti? “Non dico questo. Ma fare politica significa trovare un punto di equilibrio tra il reale e l’ideale. Ce lo spiegava Nenni quando eravamo ragazzi”. Nenni coniò quella famosa, e abusata, espressione con la quale ammoniva di ben guardarsi dai puri, perché poi arriva sempre un puro più puro che ti epura. “Era l’esasperazione del moralismo come canone interpretativo della realtà e della politica. Ma bisogna anche guardarsi dagli iper-realisti, io sono molto critico nei confronti delle falangi del realismo straripante, anche perché li trovo fasulli”. E Formica parla di Renzi, evidentemente. “Lui usa il realismo per piegare gli idealisti del suo partito. Ma non ha nessuna visione. E’ un uomo dai tratti tipicamente strapaesani”. Renzi e Grillo, dunque. “Un provinciale e un populista”.

 

E seduto in poltrona, con alle spalle un proclama dei tempi della Repubblica romana, Formica tratteggia in pochi, precisi dettagli l’aporia e le contraddizioni che secondo lui rendono impossibile la vita del Movimento 5 stelle nelle istituzioni: “Dc e Pci erano partiti di matrice idealistica”, dice. “Ma l’eccesso di ideale trasforma la mediazione nobile della politica in sensalìa, in una forma di contrattualismo interessato”. E qui Formica fa una pausa, tono ironico-didattico: “Prendi Alfano, tanto per capirsi. Quello, sulle unioni civili, sarebbe disposto a cedere qualsiasi cosa, basta che gli dai mezzo sottosegretario”. Chiusa parentesi. “Ecco. Una volta che la mediazione è stata declassata in sensalìa, la trasformazione, o meglio la deformazione della politica è inevitabile. E allora ci si rifugia nei fondamentalismi, si rompe ogni rapporto tra reale e ideale. E si arriva dunque ai cinque stelle, cioè al punto in cui i popolarismi diventano populismo. Per noi socialisti il popolo era il proletariato, cioè una classe dotata di coscienza, non una plebe. Il populismo assume invece il compito di fare sue le pulsioni plebee”. Ma perché non riescono a governare, i 5 stelle? “Ci arrivo. Il Movimento cinque stelle è il collettore di tutte le proteste, di tutte le pulsioni che non trovavano più sfogo in una politica capace di mediare e ricomporre i conflitti. Ma a questo punto, assieme ai voti, e al personale politico eletto, dentro il Movimento esplode anche una contraddizione gigantesca, che è tipica di tutti i populismi quando si istituzionalizzano: il consenso facile che si raccoglie negli infiniti rivoli della protesta, quando si trova di fronte al governo, che per sua natura è ricomposizione dei conflitti, va in cortocircuito”. Ed ecco dunque il caso di Quarto Flegreo, ma anche le tensioni tra Grillo e Pizzarotti a Parma per l’inceneritore, ecco l’espulsione del sindaco di Gela che non voleva chiudere il petrolchimico, ed ecco i guai con la spazzatura del sindaco Filippo Nogarin a Livorno. “Loro sono antisistema, ma pure coltivano la velleità di gestire il sistema”. Un’aporia da sciogliere, dice Formica, una contraddizione in termini che in questi giorni, come si vede, scoppietta tra minacce e rinfacciamenti: uno si dimette, uno viene cacciato, l’altro rimane al suo posto, uno cade dalle nuvole, l’altro grida che lui l’aveva detto, un trombettiere squilla l’unità del movimento, un coro assordante intona l’inno di ciò che si doveva fare, di ciò che si farà e non si farà.

 

[**Video_box_2**]“Ma io nelle espulsioni che fa Grillo non ci vedo niente di strano visto che abbiamo accettato che i partiti non esistono più”, dice Formica. “Qual è la differenza con lo ‘stai sereno’ di Renzi a Letta? La regola è che tutto è lecito nella disarticolazione. Mi capita talvolta di pensare alla reazione di Sandro Bondi quando ha lasciato Berlusconi. Nella sua pochezza, Bondi ha detto la verità: ‘In questi anni ho fatto il servo’. Ma se è così, se funziona così, davvero ci dobbiamo stupire di Grillo?”. E allora il vecchio Formica solleva lo sguardo e dice che “più dello scollamento di Grillo dalla realtà, mi inquieta il fasullo ‘realismo del fare’ di Renzi. Lui si occupa del Senato, vuole la semplificazione, pensa sempre alla catena di comando corta. Questa sua idea che si debba sempre rifuggire dalle fatiche della democrazia è perniciosa. I socialisti degli anni Settanta non ponevano un banale problema di semplificazione, che è un problema da gestione condominiale, ma pensavano che la costituzione avesse bisogno di un profondo ripensamento. L’Italia ha bisogno di un’assemblea costituente, la Carta va riscritta, ma riscritta tutta, in maniera coerente. E la nuova Costituzione deve servire a spiegare come il nostro paese può stare in Europa e in un sistema sovra nazionale di libero mercato. E’ ancora compatibile la prima parte della nostra Costituzione, che tanto affida allo stato, con un’Europa che ha il suo inquadramento in un contesto di libera contesa politica ed economica? Non lo è. E occuparsi del Senato solo per comprimere il meccanismo democratico denota miopia, diciamo così. Per essere buoni”. E per essere cattivi? “Una sicumera che non promette bene. Guardi, le astuzie di Berlusconi sono durate vent’anni. Renzi naturalmente è più fresco di astuzie, ma è già in via d’esaurimento”. Dunque? “Troverà la sua mozione Grandi sul tavolo”. Un 25 luglio. “E lo convocherà lui”. La sicumera.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.