Il diluvio dei nuovi diritti
Tanto aveva piovuto, per lunghe annate di mutamenti culturali e sociali, che alla fine qualche tuono annunciò il cambio di stagione anche in Italia. Un rullare in crescendo di tuoni e di tamburi. In attesa degli sprazzi di sole sull’economia, l’Italia che svolta nel 2016 è quella dei diritti individuali, o libertà civili. Insomma dei “nodi etici” che, a seconda di come li si guardi, bloccano il paese più dell’articolo 18 o lo tengono ancorato al suo umanesimo tradizionale. Il 15 gennaio il governo ha dato il via libera alle depenalizzazione della cannabis a scopo terapeutico, sulle unioni civili si voterà entro poche settimane e per marzo è stato calendarizzato il dibattito sull’eutanasia. Non è detto che sui due ultimi argomenti sarà una marcia trionfale per i proponenti. Più d’uno ha notato che la decisione di fissare il voto in Aula sul ddl Cirinnà dopo il Family Day del 30 gennaio (senza vescovi né associazioni ufficiali) sia una scelta un po’ furbetta da parte del premier Matteo Renzi. Ma la sensazione che qualcosa di importante stia per accadere è netta. Su queste materie, l’Italia segue a ruota quasi tutto il mondo occidentale, che alla maggior parte delle culture war ha già detto addio, allineandosi in una doxa condivisa, universale, senza spazi per alternative di pensiero, di governo.
La legge sulle “Norme in materia di eutanasia” va in discussione entro la fine di marzo. E’ pur vero che si tratta dell’approdo alla Camera (commissione Giustizia) di un disegno di legge di iniziativa popolare depositato nel settembre del 2013, molto tempo. Ma in un paese dove il testamento biologico non è mai diventato legge che ora vada in onda direttamente l’eutanasia è una notizia che spiega più di tante parole. Basti pensare che l’iter sul testamento biologico era iniziato addirittura nel 1999, e nella scorsa legislatura sull’onda del caso Englaro, furono presentati addirittura 10 disegni di legge. Non passarono mai, anche per l’effetto frenante imposto da maggioranze (o anche minoranze) conservatrici. E la caduta del governo nel 2011 riportò alla casella di partenza. Oggi si assiste invece a un cambio di passo culturale, prima che politico, su cui non è possibile evitare di riflettere. Lo stesso in qualche modo vale per la cannabis, per quanto sia evidentemente di minore portata: è pur sempre il segnale che in materia di libertà e diritti individuali, sui quali lo stato non ha diritto di stabilire confini, c’è una porta ormai sfondata. Il Foglio nel 2011 titolò “La guerra culturale alla droga è persa. Fine di uno scandalo sociale”, raccontando un report della Global Commission on Drug Policy in cui si prendeva atto che “la guerra globale alla droga ha fallito”. Scrivevamo, allora, che “poiché la war on drugs è stata una cultural war, combattuta sul confine di uno scandalo sociale, il nuovo approccio suggerito dal documento mette in risalto un cambiamento nella percezione sociale della droga”.
In fondo, era già tutto lì. Se in un colpo stanno arrivando eutanasia, cannabis, adozioni, unioni civili significa che le culture war che vi si opponevano sono tutte perse. O in grave difetto di credibilità. La cosa nuova da notare è però questa: che oggi un vero dibattito su questi argomenti non esiste o quasi, segno che si tratta di cose date per acquisite nella società – o almeno nel suo sempre deformante specchio mediatico. Ma anche che un tasso di correttezza politica, o meglio di polizia del linguaggio, sta uccidendo la libertà di dissentire. C’è un’impossibilità del “diritto di cittadinanza” nel dibattito. L’hate speech, le parole che non possono essere dette perché un’opinione di maggioranza o addirittura la legge lo vietano è una realtà che nelle società anglosassoni sta riducendo i termini della discussione solo alle sue frange estreme. In Italia la situazione non è troppo diversa, a guardarla con disincanto: chi è contro la Cirinnà è omofobo, se sei contro l’eutanasia fai soffrire i malati. Il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana faceva venerdì un’annotazione discutibile, a proposito della legge 40: “Furono trasferiti nel testo i propri interessi di partito e le proprie preferenze…”. Che in una legge entrino i punti i vista di chi la fa – persino di quelli contrari alla sua ratio profonda – è forse diventato un imperdonabile errore civile?
[**Video_box_2**]Da parte di quel che resta del pensiero conservatore si è spesso argomentato che l’atteggiamento mutato della chiesa ha contribuito ad aumentare questa subalternità. Mettere sotto accusa una modernità “incapace di rispondere alla questione della legittimità dell’uomo”, per dirla col filosofo cattolico francese Rémi Brague, si fa più difficile anche per i laici, senza la sponda della chiesa. Certo, con un Papa che parlando dell’adultera del Vangelo spiega che Gesù “va oltre la Legge”, è difficile pensare a una chiesa che faccia delle battaglie legislative il suo core business. Ma la sensazione di essere di fronte a un pensiero dominante ormai senza contrasto, e che ora semplicemente passa all’incasso legislativo, senza timore di trovare opposizione, se non nella guerriglia parlamentare, è forte.