I “surreali” pm di Bologna e la domanda sul ruolo dei magistrati che il Pd comincia a porsi

Claudio Cerasa
Lo hanno capito anche a sinistra, forse. Lo hanno capito anche i vecchi nemici di Silvio Berlusconi, ora, e lo dicono sottovoce ma con convinzione, con aggettivi che lampeggiano come fulmini e accuse che rimbombano come tuoni.

Lo hanno capito anche a sinistra, forse. Lo hanno capito anche i vecchi nemici di Silvio Berlusconi, ora, e lo dicono sottovoce ma con convinzione, con aggettivi che lampeggiano come fulmini e accuse che rimbombano come tuoni. E lo fanno, a sinistra, anche se le parole e le imputazioni, vostro onore, sono le stesse che un tempo il Cavaliere lanciava tra i buuu, gli ululati e i fischi dell’intellighenzia progressista. La notizia è grossa e vale la pena di essere approfondita perché riguarda uno storico e insidioso tratto identitario della sinistra, oggi in trasformazione, che è quello del rapporto tra gli eredi del Pci, ora Pd, e la magistratura democratica. Sul piano legislativo c’è ancora molto da fare, ovvio, e le dichiarazioni di guerra inviate gentilmente dal governo al mondo della magistratura, finora, riguardano più la forma che la sostanza e più i simboli che la struttura. Ma nelle ultime settimane, rullo di tamburi, è successo che la sinistra di lotta e di governo si è ritrovata per varie ragioni a sospettare che la vecchia accusa berlusconiana relativa a una magistratura che agisce con finalità politiche non era forse campata così per aria. La storia più recente, clamorosa è quella che riguarda la scelta di Magistratura democratica – corrente di sinistra del mondo togato – di prendere esplicitamente posizione contro il governo, contro Renzi e i suoi alleati, decidendo di sostenere direttamente il comitato referendario per il No al referendum sul ddl Boschi, in nome di una doverosa e necessaria “resistenza costituzionale”. Dunque la domanda. Con lo stesso criterio con cui un tempo ci si poteva chiedere se fosse possibile riconoscere fino in fondo il principio di terzietà in un gruppo di magistrati che sceglieva deliberatamente di impegnarsi politicamente, allo stesso modo oggi nel mondo renziano ci si inizia a chiedere se non avesse ragione Berlusconi quando si chiedeva se “un paese dominato dal predominio arbitrario di un nucleo di magistrati collocato nel cuore dello stato, dotato di un enorme potere, non sottoposto di fatto a nessun controllo, del tutto autoreferenziale e per niente legittimato da una elezione democratica”. (Domanda maliziosa: qualora un magistrato di Md dovesse aprire un’indagine su un qualche volto vicino al governo, potrà mai essere considerato pienamente super partes ora che Md è scesa ufficialmente ed esplicitamente in campo contro le politiche del governo?). Nelle ultime settimane, però, più che da Palazzo Chigi, le parole più dure pronunciate a sinistra contro l’attivismo della magistratura sono arrivate da una gauche particolare e importante come quella bolognese, in seguito a un piccolo caso di cronaca locale. A inizio gennaio i pm di Bologna hanno querelato per diffamazione i capigruppo di Pd e Sel a Palazzo d’Accursio, che avevano definito “folle, surreale e ridicola” un’indagine a carico del sindaco Merola (Pd) e dell’assessore al Welfare Amelia Frascaroli, accusati di abuso d’ufficio per aver riallacciato l’acqua in alcuni stabili occupati illegalmente a Bologna, in via De Maria e via Fioravanti.

 

Il caso ha assunto un certo rilievo non tanto per l’indagine in sé quanto per il diritto reclamato ad alta voce dal Pd bolognese di poter criticare liberamente e apertamente l’azione di una procura della Repubblica. Sarà perché in Emilia Romagna, negli ultimi anni, le procure hanno influenzato con forza l’azione della politica. Sarà perché l’Emilia Romagna è una regione in cui un governatore di sinistra (Vasco Errani) si è dimesso per un’inchiesta che poi nel tempo si è rivelata inconsistente. Sarà perché l’Emilia Romagna è una ragione in cui la procura ha avuto un peso anche nella scelta dei candidati alle successive primarie (Matteo Richetti, antagonista dell’attuale governatore Stefano Bonaccini, fu costretto a ritirarsi dalle primarie in seguito a un’inchiesta che poi si è rivelata inconsistente). Sarà per questo e molto altro, ma il fatto è che l’indagine sul sindaco e il suo assessore è stata un detonatore dell’insofferenza dem rispetto all’attivismo dei pm. E a far saltare definitivamente il tappo è stato, udite udite, l’ex premier Romano Prodi, con un intervento su Repubblica (Repubblica!). Senso dell’intervento: la magistratura non è intoccabile, va rispettata ma quando serve va anche criticata. “Ho seguito con un certo interesse lo svolgersi dei rapporti fra autorità politica e giudiziaria della nostra città… devo confessare che mi sono rimasti parecchi punti di difficile comprensione in entrambi gli episodi che sono oggi all’attenzione dell’opinione pubblica… trovo una certa differenza fra chi urla all’arbitro di mettere gli occhiali e chi gli dà del venduto”. A Prodi, sempre su Repubblica, qualche giorno dopo risponderà in modo più esplicito il professor Piero Ignazi, ex direttore del Mulino, secondo il quale “il fenomeno di delega alla magistratura da parte della politica parte da lontano… io credo sia molto utile una riflessione in questo momento perché ci sono tra politica e magistratura asperità irrituali… Non so se si tratti di un fenomeno limitato a Bologna, perché in generale risale a vecchi problemi di delega alla magistratura da parte della politica”. Prodi e Ignazi non arrivano a sostenere la tesi di Raffaele Cantone e non arrivano a dire che i problemi della magistratura sono il Csm – “un centro vuoto di potere”, le correnti, “diventate come un cancro”, e alcune correnti in particolare, come  Md, che “utilizzano la giustizia come lotta di classe”. Ma se il mondo democratico, ora che lo spettro berlusconiano non fa più paura come un tempo, volesse davvero fare un passo in avanti per anestetizzare la supplenza della magistratura non può che partire dall’origine dei problemi e dalle ambiguità e dalle irritualità evidenti che nascono nel momento in cui si dà la possibilità ai magistrati di fare esplicitamente politica attraverso l’attività delle loro correnti, prendendo per esempio posizione su questioni che riguardano il potere legislativo e non quello giudiziario e rinunciando di fatto a essere percepiti come delle figure terze e neutrali. Il presidente del Consiglio ha mostrato in più occasioni di nutrire un sentimento di viva insofferenza nei confronti dell’attivismo della magistratura e in alcune circostanze (alcune) ha dato prova di voler riequilibrare a vantaggio della politica lo sbilanciamento esistente nei rapporti tra politica e magistratura. Agire sulla responsabilità civile e sulle ferie però non basta, naturalmente, e per riequilibrare una volta per tutte il rapporto tra giudici e politica la scelta più ovvia sarebbe quella di fare un passo per eliminare le correnti della magistratura. E con la stessa logica con cui il governo è riuscito a limitare il potere di veto dei sindacati dei lavoratori restringendo sempre di più il perimetro della concertazione, allo stesso modo l’unica mossa che potrebbe permettere di svolgere “una riflessione sul perché ci sono tra politica e magistratura asperità irrituali” è intervenire con in maniera non simbolica, ma strutturale, su quel “centro vuoto di potere” che è il Csm.

 

[**Video_box_2**]Le correnti, oggi, hanno un senso nella magistratura perché ci sono alcuni ruoli che si raggiungono più per questioni correntizie che per questioni meritocratiche. Basterebbe dunque far sì che l’appartenenza alle correnti cessasse di essere conveniente – per esempio sorteggiando i consiglieri del Csm e non più eleggendoli seguendo la logica del Cencelli – per rendere inutile la presenza delle correnti. L’attuale equilibrio del Csm, dove i membri laici, approfittando della litigiosità dei membri togati, giocano un ruolo cruciale e spesso determinante che dà buon margine di manovra alla politica e ovviamente indirettamente al governo, potrebbe indurre a posticipare nel tempo la riforma del Csm. Renzi potrà giocare ancora a lungo con tutti i simboli che vuole. Ma senza toccare il Csm e il suo, diciamo così, odore stantio di correnti, continuerà a non toccare uno dei grandi problemi dell’Italia. E fino a che ci saranno le correnti della magistratura ci saranno sempre governi che a un certo punto della storia si chiederanno se è un paese normale, e democratico, quello in cui magistrati e giudici in attività si schierano contro una forza politica in nome di una ultra politica “resistenza costituzionale”. No riforma del Csm, sì party dei magistrati, caro Renzi.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.