Gianni Pittella

Da Strasburgo alla Basilicata, ecco l'epopea glocal dei Pittellas

Marianna Rizzini
Un fantasma s’aggira per l’Europa, nei giorni duri dello scontro tra Matteo Renzi e Jean-Claude Juncker, e risponde al nome di Gianni Pittella. Dinastia, vezzi e strategie del leader Pse con l’inglese virale e di Marcello Pittella col suo “Partito della regione”.

Roma. Un fantasma s’aggira per l’Europa, nei giorni duri dello scontro tra Matteo Renzi e Jean-Claude Juncker, e risponde al nome di Gianni Pittella, eurodeputato pd di corposa esperienza, indimenticabile tenuta scenica e innumerevoli preferenze, ma anche ex candidato alle primarie dem del 2013 (si ricordano i tweet e post scoppiettanti del Pittella arrivato quarto a livello nazionale, ma primo, anzi quasi unico, in quel di Rapolla, borgo della sua Basilicata dove, su 182 votanti, ottenne ben 175 voti). E siccome Pittella, riconoscibile ovunque per quel paradosso fisionomico – sorriso gioviale e occhi scenograficamente segnati alla Anna Magnani – è anche attualmente presidente dei Socialisti e Democratici europei (ex Pse) nonché fan di lungo corso degli Stati Uniti d’Europa, si capisce che possano destare un certo allarme le sue dichiarazioni contro Juncker, il presidente della Commissione europea in polemica con Matteo Renzi, e contro tutti i detrattori dell’Italia che s’è desta a Bruxelles, rediviva come neanche Leonardo DiCaprio dopo l’attacco dell’orso nell’ultimo film di Alejandro González Iñárritu. Tuttavia sollevano anche una certa sorpresa, le dichiarazioni pittelliane, la sorpresa che si riserva alle apparizioni intermittenti. Pittella è infatti fantasma anomalo: c’è – eccome se c’è – ma non sempre da Roma è possibile vederlo, e anzi passano mesi e mesi in cui non lo si sente neppure nominare. Ma l’inabissamento non è mai definitivo, e Pittella d’improvviso riemerge con la grancassa su un argomento a scelta: droghe, immigrati, welfare, meccanismi decisionali della Ue, piani di investimenti, Grecia, Turchia, Siria, Libia, lavoro, pensioni, banche. Su Twitter è un continuo profluvio, e gli affezionati non mancano di ritwittare i motteggi dell’uomo anche noto per l’ipnotico monologo in inglese sulla pace in Europa: era il 2012 e Pittella pronunciava un discorso senza complessi da italiano che combatte contro la dizione, la struttura della frase e la “r” angloamericana: tutte le “r” restavano anzi perfettamente lucane, e la parola “achievable” (raggiungibile, ottenibile) veniva pronunciata al netto di ogni consiglio fonetico, e cioè: “Acièvabbòl”. Da quel momento fu, per i cultori, Pittella-mania, poi esplosa su larga scala mediatica durante le suddette primarie Pd: Pittella arrivò appunto ultimo, ma non si scompose (tanto lui ha i voti, li ha sempre avuti fin dal 1999, e infatti alle successive europee del 2014 ha totalizzato 233.466 voti, surclassando i capilista del partito). D’altronde adotta metodi pre-partito liquido, “e se lo chiami nel paese più minuscolo della sua Lucania lui certamente verrà”, racconta un osservatore autoctono.

 

E a questo punto la storia si biforca. Da un lato, infatti, è storia “glocal”, quella del Pittella internazionale che da una settimana non si risparmia, e dice “caro Juncker così non va, i socialisti chiedono una svolta” (sull’Huffington Post del 18 gennaio) o “caro Juncker dacci una risposta”, altrimenti “dovremo fare una riflessione sul nostro sostegno alla Commissione” (su Repubblica del 16 gennaio) o “caro Weber sei ridicolo e irresponsabile”, e noi “non vogliamo che nessuno ci metta l’anello al naso” (su Twitter, ieri, per commentare l’uscita di Manfred Weber, presidente del Ppe, su Renzi che “mette a repentaglio la credibilità dell’Europa”). E chi, quaggiù, si era dimenticato di quando il pirotecnico Pittella, uomo dalla solidissima base elettorale, si affacciava dagli schermi Sky per il confronto modello “X Factor” tra i quattro candidati alla segreteria pd (lui, Renzi, Gianni Cuperlo, Pippo Civati), al vederlo attivo contro Juncker subito l’immagine tornava in mente: “Ah, ma è Pittella!”.

 

[**Video_box_2**]Ma è anche una storia “local”, la sua. Anzi la loro, perché non si può dire Pittella senza dire “Pittellas”. Non c’è infatti soltanto Gianni ma anche Marcello, fratello di Gianni e governatore della Basilicata coast-to-coast del film di Rocco Papaleo. Marcello, stesso metodo di Gianni, stesso percorso (esordio in sordina nella natìa Lauria, e poi su fino a piani più visibili), e stessa provenienza – sono entrambi figli di Domenico detto “Mimì”, ex senatore socialista dalla storia forte, dipanatasi tra gli anni di Piombo e gli anni non-di-Piombo – è medico come il fratello e come il padre, e come il fratello e come il padre non si è mai convertito alla politica smaterializzata che mitizza il web e disdegna l’arte del compromesso. Anche Marcello, come Gianni, in campagna elettorale scarpina parecchio, e mai si sarebbe sognato, da governatore, di impelagarsi in guerre di trincea contro il realizzarsi del cosiddetto “Partito della nazione” – e anzi una sorta di “Partito della regione” è già realtà tra sassi di Matera e dintorni di Potenza. E chiunque, in Lucania, a sentir nominare i due “Pittellas” attivi sulla scena oggi, Gianni il globale e Marcello il locale, non può fare a meno di alludere al primo cardine della dinastia, quel Domenico detto Mimì, chirurgo e senatore per lunghi anni, poi accusato e condannato per aver curato nella sua clinica la brigatista Natalia Ligas, infine latitante in Francia per il tempo necessario a maturare la decisione di tornare, costituirsi, scontare una parte della pena, essere graziato da Carlo Azeglio Ciampi e vedere la sua carriera politica proseguire per interposta persona (i figli). E però lo stampo e i voti sono quelli, come il consenso stabile da Prima Repubblica, con lavorìo sui congressi da piantonare e il collegio da curare, e a ogni elezione, locale o globale, il miracolo dei Pittellas rivive sotto gli occhi dei capi di partito che, da Roma, si ritrovano a contare i voti di Gianni e di Marcello. E così Mimì, nel suo autunno del patriarca, e nella tranquillità della sua Lauria, un giorno, in un’intervista al Quotidiano del Sud, si è concesso di guardare indietro, alla sua carriera a Palazzo Madama (dal 1972 al 1983, “lavoro eccitante e al tempo stesso usurante”), e avanti, alla strada dei figli, tratteggiandone il carattere –“l’intelligente” e “l’orgoglioso”, quello con grande “volontà di fare” e quello “che affronta la vita con entusiasmo”, e alla fine pareva che i due si confondessero in un’unica immagine, e non si sapeva più dove finiva Gianni e dove iniziava Marcello, dove iniziava Marcello e dove finiva Gianni, e dove davvero il locale diventava globale e viceversa.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.