Un leader per il Cav. / 1
Il casting lo facciamo noi. Il Foglio ha lanciato a dicembre una campagna per non condannare la destra al salvinismo e ha raccolto centinaia di proposte dai propri lettori. Sia sulle idee giuste da seguire per essere un domani competitivi con Renzi. Sia sulle persone giuste su cui investire per provare a individuare un possibile leader del centrodestra che sarà. Il nostro casting parte da Serena Sileoni, vicedirettore generale dell’istituto Bruno Leoni. Se volete inviarci idee e nomi scrivete a [email protected]
Un candidato a sorpresa per il centrodestra, dove trovarlo? Un mese fa il Foglio ha lanciato una specie di “casting” on line, un gioco serio per il 2016, per cercare, si diceva, “l’Albert Rivera italiano”, il possibile futuro candidato premier di un centrodestra che “al momento è moribondo, ma non defunto”, e comunque in attesa di resurrezione. Come può il centrodestra tornare a essere competitivo? Chi potrebbe, sottotraccia, tentare la “reconquista” di uno spazio non di rimessa, e la costruzione di una vera alternativa al centrosinistra di Matteo Renzi (cosa che servirebbe pure a Matteo Renzi)? Per rispondere a questa domanda il Foglio ha invitato i lettori a “raccogliere suggerimenti, nomi, idee, curriculum, segnalazioni sul nome giusto, possibilmente non troppo conosciuto, da consigliare al centrodestra post berlusconiano per non soffocare nella bolla salviniana”, e di inviare i suggerimenti alla mail [email protected] (si può ancora scrivere, per tutto il 2016). I nomi ricorrenti della consultazione, finora, sono Serena Sileoni, giovane vice-direttore dell’Istituto Bruno Leoni, Nicola Porro, giornalista e conduttore televisivo e Andrea Romizi, sindaco di Perugia (e altri). Che cosa pensano? Quali idee metterebbero in campo, se davvero – gioco serio – fossero loro i candidati premier, e che cosa farebbero per incalzare Matteo Renzi? E insomma si scherza ma anche no con il casting (e chissà che qualche buona idea per il centrodestra non salti fuori).
“Il candidato premier che vorrei…”, dice Serena Sileoni pensando a un profilo astratto di “Albert Rivera italiano”, ma la si deve fermare subito, ché, in questo gioco-non gioco, il candidato premier potrebbe essere proprio lei, avvocato e giovane vice-direttore dell’Istituto Bruno Leoni, il think tank che, come da definizione dello stesso IBL, “studia, promuove e diffonde gli ideali del mercato e della libertà di scambio”. Un think tank liberale e liberista diventato sempre più “virale” sul web in anni in cui, dice Sileoni, “tutti si dicono liberali senza esserlo davvero”. Motivo per cui, quando Sileoni va in televisione, ad “Agorà”, a “Di Martedì”, a “Porta a Porta”, a “Omnibus”, cerca di mettere paletti al dilagare di imprecisioni sul tema, con lessico mirato, estrema pacatezza professorale e determinazione a mettere in buca l’interlocutore che in tema di economia abbia un approccio più grossier. ne scaturisce clash mediatico con l’aspetto e il piglio (non per niente alcuni fan e studiosi di area IBL, non senza autoironia, la definiscono “l’unico esponente non nerd dell’Istituto”). Ma chissà se quel lessico e quella precisione pacata farebbero presa sulle piazze abituate ai “vaffa” di Beppe Grillo o agli arrembaggi di Matteo Salvini. Per affrontare una piazza, scherza Sileoni, “servirebbe quasi quasi Matteo Renzi come spin doctor”. E uno se la vede con il megafono, la giacca, i jeans e lo sguardo assertivo (Serena è minuta, occhi azzurri, ricci gentili, ma diciamo che l’aspetto inganna), magari alle prese con un’ipotetica prima prova da candidata riluttante (ché il lavoro che fa per il Bruno Leoni le piace moltissimo, dice, tanto che “vita privata e professionale si confondono senza soluzione di continuità”. E suo marito, che è professore ma non liberale purista come lei, si sente spesso dire da Serena: “La mia missione è convertirti al liberalismo”). L’immagine non è quella di una Sileoni urlatrice, e infatti a lei piacciono le campagne elettorali anni Ottanta (“in questo sono reazionaria”), quelle che lei non ha visto perché negli anni Ottanta c’è nata: tribune politiche e comizio paese per paese. Del resto Serena Sileoni da Macerata, laureata in Diritto Costituzionale, non ha neanche la tv, e se va in tv poi non si rivede. All’IBL c’è arrivata studiando Bruno Leoni negli anni dell’Università, mentre frequentava Giurisprudenza “come compromesso” con se stessa: “Se avessi dovuto seguire i miei interessi e l’istinto, allora avrei fatto Lettere. Ma avevo bisogno di capire. Però mi sono detta: non farei mai un mestiere di diritto positivo, mai il notaio” (le amiche di sua madre, in verità, “non hanno ancora capito che lavoro faccia, ma pazienza”, dice). L’altro suo luogo di elezione è stata la casa editrice maceratese Liberilibri, dove Serena, che è anche giornalista pubblicista, è stata (fino al 2012) responsabile editoriale, soprattutto nel campo della teoria liberale e libertaria. Come vicedirettore dell’Istituto Bruno Leoni, cerca di far capire al grande pubblico che il think tank è “impresa di idee e pensiero” e di impegnarsi per fare sì che il think tank sia presente sulla scena mediatica, “mettendo le idee al servizio della politica, al servizio di tutti. Fare politica vuol dire occuparsi di questioni pubbliche, e io preferisco arrivare direttamente al cittadino elettore. Quindi le lancio, chi vuole recepire recepisca”.
Liberale, dunque, ma “liberale” in che senso? Il termine è molto inflazionato, dice Sileoni, “anche presso chi liberale non è”, come se “la caduta del muro di Berlino avesse reso tutti liberali”. La parola in sé “è stata interpretata ambiguamente in Italia: c’era gente che usava la parola liberal e liberale alternativamente, come se sotto lo stesso termine si nascondessero visioni diverse delle cose. Quello che doveva essere il ventennio liberale di Silvio Berlusconi è stato poi di fatto una delusione, da questo punto di vista”. Sileoni è liberale nel metodo e nel merito, e per battere o incalzare Matteo Renzi, domanda-base del divertissement serio da casting fogliante, oltre a idee liberali, appunto, metterebbe in campo la “questione di metodo: gli si chieda, a Renzi, quale idea ha lui del ruolo del governo e dell’Italia al di là del rinnovamento di cui sempre parla. A due anni dall’insediamento a Palazzo Chigi, qual è l’indirizzo politico del suo governo? Quale l’Italia che vorrebbe, una volta che è stata rottamata e alleggerita? Perché, dice Sileoni, “ho l’impressione che l’elettore non riesca ad apprezzare l’effetto a lungo termine di provvedimenti annunciati e magari ai primi passi. Ma vediamo davvero, quando si parla di rivoluzione della Giustizia e della PA, in che cosa l’Italia del 2020 sarà diversa da quella del 2010?”. Renzi, dice Sileoni, ha “portato a casa la riforma del mercato del lavoro, anche se sull’aumento dei contratti a tempo indeterminato incide il periodo di decontribuzione – comunque la riforma l’ha fatta”. Invece sulla riforma della Pubblica Amministrazione Sileoni ha dei dubbi: “Mi sembra più un intervento di manutenzione, di facciata”. E quella della Scuola, più che altro, un “intervento di stabilizzazione dei precari: nulla di più reazionario e tradizionale in Italia”.
Ma che cosa farebbe, Serena Sileoni (che ride ogni volta che si nomina la parola “candidata”), se davvero per un giorno il “se fossi premier” non fosse un gioco, ma un programma da stilare per la campagna elettorale? “Ricette non esistono, i programmi sono specchietti per le allodole, e anche il più carismatico e convinto dei leader, come Renzi, poi deve fare i conti con il paese, con le sue abitudini sedimentate, con un sistema arenato su posizioni di rendita. Tutto questo ha a che fare con il ‘mito’ della democrazia: non è il voto per una persona che cambia il destino di un paese, è una questione complessa: di mentalità, prima di tutto”. I Cinque Stelle, dice Sileoni, in alcune cose “hanno visto giusto: per esempio sulla necessità di intervenire sui meccanismi interni dei Palazzi, e però quello che mi distanzia totalmente da loro è l’idea che ci sia una parte della popolazione pura, più pura degli altri, vaccinata contro qualsiasi problema di uno Stato e di una democrazia mitizzati”. A questo punto, però, un precetto Sileoni emerge: “Fare di meno”. Strabuzza gli occhi il cronista, ma Sileoni ripete rincarando: “Smettere di fare”. Cioè “lavorare per sottrazione, non modificare, semmai abrogare. Altro che le province: Sileoni taglierebbe direttamente le regioni, “primo perché, essendo per così dire nascoste allo sguardo è più facile che nelle pieghe dell’amministrazione si annidino disservizi, sprechi, abusi”. Poi, perché a livello di Sanità non ci sono stati “i risultati sperati”. Ma è quando entra in campo il tema “diritti” universali che Sileoni ridiventa il vicedirettore dell’Istituto Bruno Leoni: “Garantire i diritti universali, sì, alla Salute, all’Istruzione, ma cambiando metodo (voucher, assicurazioni), per integrare il pubblico”, tantopiù nel paese “che ha fatto un referendum sull’acqua”. Per lavorare di sottrazione, anche la spending review, se non intacca le funzioni dello Stato, “resta esercizio accademico”, dice Sileoni: “Se fosse seria dovrebbe arrivare al Welfare, per demistificare l’idea che basti dirlo perché tutto sia garantito”.
[**Video_box_2**]Il secondo “precetto Sileoni”, chiamiamolo così, dice: “Introdurre più concorrenza, più senso del rischio e valorizzazione del suo significato. Lo Stato si metta in discussione, cominciando a diffondere presso i cittadini l’idea che i diritti vengano garantiti ricorrendo a meccanismi concorrenziali”. Fare il meno possibile pure nel settore penale, dice Sileoni, criticando “l’introduzione di reati appositi mediatici: femminicidio o omicidio stradale quando c’è già il reato di omicidio e si può lavorare sulle aggravanti. Questo vuol dire lavorare in addizione, cosa deleteria in un settore in cui peraltro è in gioco la libertà personale”. In generale, dice Sileoni, “mettersi in testa che non c’è una soluzione nuova per ogni problema – e che forse la soluzione c’è già, basta farla funzionare, senza lamentarsi se si pagano troppe tasse e ci sono troppe leggi”. Ma che cosa dovrebbe fare un premier per mettersi nell’ottica del “fare di meno”? “Si dovrebbe per esempio usare molto l’AIR, l’analisi impatto regolamentazione, a livello di valutazione costi e benefici di una legge: se i costi superano i benefici la legge non si fa – anche se a quel punto dovrebbe funzionare il sistema di sanzioni. Soprattutto, a livello di comunicazione, un premier dovrebbe far capire, con vecchio adagio liberale, che “nessun pasto è gratis, e che quando lo Stato interviene l’intervento non è a costo zero, e prendersi questa responsabilità politica”. Fare meno anche con i tweet, dice Sileoni, fan di uno stile mediatico più discreto di quello dell’attuale governo (“recuperare il valore della ponderazione”, è l’ultimo precetto Sileoni).