Numeri oltre il rimpasto
Quel colloquio tra Renzi e Alfano che svela il futuro sinistro dell'alleato del Pd
Roma. Angelino Alfano viene gravemente introdotto nello studio di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, misura con lo sguardo il suo interlocutore, e gli propina un discorsetto che l’altro, il presidente del Consiglio, ha già sentito tante volte, fino alla noia. E infatti Renzi fissa subito l’occhio lontano, mentre già una ruga profonda e verticale si disegna sulla sua fronte. “Ci sono le elezioni amministrative”, gli dice Alfano, con quel tono che Renzi conosce benissimo, una specie di sonnolenza lontana, che è in lui la maschera del senso d’ufficio, quel modo di porsi privo di grinta che fa sembrare il ministro dell’Interno una pianta, quasi un grosso e intricato cespuglio: “Dovremmo pensare a un’alleanza tra noi del Ncd e voi del Pd”. Al che il presidente del Consiglio, senza apparente ombra di malizia o di canzonatura, ma forse con una sorta di divertimento segreto, gli dice, testuale: “Ma scusa, perché non vai con Berlusconi? Seconde me ti riprende”.
E davvero Alfano è in difficoltà, con il partito e i suoi candidati trattati dal Pd alla stregua dell’insalata di Fukushima, una cosa da decontaminare come il latte e le carote, da isolare, mettere in quarantena, depositare in barili stagni sul fondo del mare. A Milano, il candidato sindaco del Pd, Beppe Sala, quando interviene in pubblico, per prima cosa dice “sono di sinistra”, poi aggiunge: “Non farò mai un allargamento al Ncd”. E così fa pure il sindaco di Bologna, Virginio Merola. Fiero il cipiglio, marcato il profilo, deciso l’approccio: “Un’alleanza con Ncd e Udc è impensabile”, ha detto poco tempo fa rivolgendosi a Valentina Castaldini, bolognese e portavoce nazionale di Ncd, il volto nuovo che Alfano spende in tutte le trasmissioni televisive. Pare che il sindaco Merola, ogni volta che la vede, dica: “Quella mi fa venire l’itterizia”.
Così a Palazzo Chigi, di fronte ad Alfano, che già intravvede concatenazioni agghiaccianti, miseria e disoccupazione, Renzi ha pronunciato qualche promessa vaga, qualche parola che non vuol dire nulla, o quasi nulla, ma che serve come non altre ad abbagliare gli ignari, gli ha concesso dei sottosegretari, ha promosso Enrico Costa ministro degli Affari regionali, ma niente di più: “E’ meglio se correte da soli, vediamo quanto prendete, penso sia meglio per tutti, anche per te. Le elezioni politiche? Vediamo, c’è tempo”. E il circospetto sorriso di Alfano deve essersi raffreddato d’una decina di gradi. In questo suo partito nato fortissimo nel 2013, dopo l’abbandono di Arcore e la scissione del Pdl, non c’è una sola postazione fissa, non c’è un interlocutore, un obiettivo riconoscibile che non sia quello di conservare ministeri e sottosegretariati, insperati traguardi raggiunti grazie a una irripetibile congiunzione astrale che si chiamava Enrico Letta.
Nel 2013 più di 3.000 amministratori del Pdl seguirono Alfano, quasi il 40 per cento dei consiglieri comunali, regionali e provinciali di Silvio Berlusconi. Un patrimonio dissipato in meno di tre anni, poco a poco sono andati via tutti. E i sondaggi, che davano Ncd al 10 per cento, oggi lo danno al 3 (ma sommando anche l’Udc). Così il neo ministro Costa, a Torino, nel capoluogo della sua regione, non riesce nemmeno a fare la lista elettorale. Come in Sicilia, anche in Piemonte i sopravvissuti di Ncd si separano, litigano, si guardano intorno spaesati. A Palermo c’era la fazione pro Crocetta e quella contro Crocetta. E non sapendo scegliere tra paglia e fieno, come l’asino di Buridano, Alfano ha elaborato un’acrobazia semantica: stare al governo senza starci. E dunque è nel governo, con un assessore “d’area”, Carlo Vermiglio, ma non compare ufficialmente. Ncd c’è ma non c’è. Ed evidentemente siamo ben oltre l’ossimoro perturbante della psicoanalisi freudiana.
“Ogni tanto si scava una trincea, che l’indomani però è deserta”, dice un senatore, uno dei tanti che non si lamenta in pubblico, che ancora non sa bene cosa fare, ma ha tutto pronto per il trasloco – come Renato Schifani che ad agosto andò a fare il bagno da Berlusconi, a Villa la Certosa – “solo che non si sa nemmeno dove traslocare”. Alla Camera e al Senato, tra i parlamentari, fermentano discorsi dall’aria drammatica e vagabonda che esplodono in determinatissimi e oscuri propositi di guerra: “Angelino si deve svegliare”. Oppure: “Quello pensa solo ai ‘casi’ suoi”. E ancora: “Anche Maurizio Lupi pensa solo a se stesso”. E poi con malevola ironia: “A Lupi importa solo di candidarsi a sindaco di Milano, come se non aspettassero che lui…”.
E la denigrazione, gli uomini di Ncd, se la riservano gelosamente, evitano di concederne l’esercizio ad altri, fanno tutto in casa. In Parlamento descrivono un Alfano incapace di agganciare davvero Renzi, e allora disegnano il quadro di una servile concorrenza a chi sa rendersi più utile: “Verdini senza stare al governo è decisamente più abile”. Mentre in provincia, quelli che resistono, tentati come sono dal rifugiarsi nelle liste civiche, vedono un uomo deciso a concentrarsi con felice miopia solo su ciò che è vicino: i ministeri, il potere romano.
E ieri Alfano, oltre ad aver incassato la promozione di Costa e di Dorina Bianchi a sottosegretario ai rapporti con il Parlamento, ha pure riportato al governo il senatore Antonio Gentile, calabrese, capo carismatico di quella che tutti chiamano “cordata della soppressata”. Gentile stava per andarsene con Verdini, stava per portarsi via il suo gruppo di senatori conterranei, Aiello e Bilardi – quest’ultimo molto noto in Calabria per la faccenda di un certo televisore Lcd acquistato con i soldi della regione, e chissà come finito a casa sua – ma alla fine ha deciso di restare. Ora è sottosegretario allo Sviluppo.
[**Video_box_2**]Così da ieri sono dodici i membri del governo di Ncd. E insomma questo partito che probabilmente non avrà una lista per le amministrative né a Roma né a Napoli, forse nemmeno a Torino, questo partito che Renzi considera così elettoralmente scarso da non volercisi alleare da nessuna parte, questo partito che ha visto ridursi i consiglieri delle Marche da cinque a uno e quelli della Campania da sette a due, esprime però dodici membri del governo. Dovunque si è votato, finora, il personale eletto di questo “nuovo centro destra” si è ridotto dell’80 per cento, o è stato completamente cancellato con un colpo di spugna sulla lavagna della politica. Il Nuovo centrodestra, dunque. Una specie così estinta da dare l’impressione che non sia mai esistita. Eppure c’è.