Il sindaco fallo tu!
Roma. Il radioso gennaio romano non contribuisce a drammatizzare una scena che, come spesso succede nella capitale, si conferma beffardamente crudele: il Pd renziano ha un candidato sindaco riluttante e blasé, Roberto Giachetti, che con una scrollata di spalle, assillato da Matteo Renzi, ha elegantemente accettato di sfidare, per amicizia e radicale senso del dovere, dei sondaggi che non entusiasmano né lui né il Pd. Un candidato riluttante, dunque, che per sovrapprezzo dovrà fare le primarie contro uno sparring partner, Roberto Morassut, che per la prima volta nella storia della boxe politica pare abbia deciso di mandare al tappeto il suo pugile. E questa del Pd, vale la pena di sottolinearlo, è persino la situazione migliore tra i partiti romani. Segue infatti il teatro a cinque stelle, dove, su un tragico palco, il Movimento è impegnato al suo meglio ad aprirsi come una scatoletta di tonno e a rovesciarsi anche tutto l’olio addosso: ed ecco allora gli spaventosi litigi tra i due leader Virginia Raggi e Marcello De Vito, ecco il livello delle sparate che raggiunge quote himalayane, ed ecco che alla domanda: allora chi si candida?, la risposta è: “Boh”. Ma la meraviglia è forse il centrodestra. Ieri Matteo Salvini, dopo due mesi, si è così annoiato di entrare e uscire da Palazzo Grazioli per non decidere nulla, che è sbottato: “Basta co’ sto minuetto”.
E d’altra parte sono all’incirca due mesi che Salvini assisteva a una scenetta sempre uguale: gli amletismi di Giorgia Meloni (mi candido, sì, no, forse), i tentennamenti del Cavaliere che pure (se volesse) ci metterebbe poco a imporsi su Meloni, e poi i mille veti, i cento dubbi, la balbuzie cosmica. Fino al capolavoro surreale di martedì sera, quando Fratelli d’Italia, il partito della signora Meloni, in una raffica estatica, ha prima candidato Fabio Rampelli (candidatura durata all’incirca tre ore), per poi sostituirlo con Rita Dalla Chiesa, la conduttrice di Forum, che tuttavia, prima di ritirarsi ufficialmente ieri sera, aveva rilasciato una fenomenale intervistata al Corriere nella quale non solo faceva capire di essere mezza renziana ma nella quale dichiarava pure di aver votato alle ultime comunali per Alfio Marchini, cioè l’imprenditore che Meloni chiama “il comunista”. Pare che Salvini abbia telefonato alla signora Meloni: una telefonata in milanese stretto, non gradevolissima.
[**Video_box_2**]E insomma quale altra città d’Italia, coinvolta nella tornata amministrativa, è in grado di offrire ai suoi cittadini un rito così mirabilmente gratuito, una contesa e un pericolo che sono puro teatro tra gli sbadigli, un elezione comunale nella quale nessuno dei partiti, nessuna delle coalizioni sembra voler vincere? Ed è paradossale, ma forse Roma, la città ingovernabile che ha ingoiato Ignazio Marino, con i suoi buchi nei bilanci e nelle strade, con i suoi parchi cittadini non dissimili a una giungla, con la sua monnezza e l’intrico burocratico, con la sua criminalità e i costumi rilassati, con le inchieste giudiziarie e le palate di veleno, spaventa tutti. Anzi li terrorizza. E così il Pd si prepara a una candidatura non precisamente imbattibile, e chissà se Renzi, sotto sotto, in realtà, non spera che qualche altro disgraziato sollevi il suo Pd dalla soma del Campidoglio. Ma quale, quale disgraziato, quale altro partito? Il movimento cinque stelle, che pure i sondaggi darebbero fortissimo, si perde nelle sue esagerazioni caricaturali e inconcludenti, quasi fosse impegnato a eliminare dall’orizzonte qualsiasi suo candidato presentabile, conosciuto o vincente. I cinque stelle hanno sempre, e dovunque, un rapporto assai complicato con tutto ciò che una vittoria elettorale comporta, ossia con il governare. Eppure altrove, per esempio a Bologna, hanno trovato una candidata che funziona. Ma non a Roma. A Roma tutto ristagna, come dice Salvini. E allora forse ciascuno, davvero, gratta gratta, si augura che siano gli altri a vincere. Una gara alla rovescia, dunque. Una contesa a chi trova il candidato più scarso. “Tutto ristagna, persino il duello”, scriveva Engels a Marx, e voleva dirgli che c’era più morte nella vita senza duelli che nella morte in duello.