L'Europa pasticcia ma i vincoli che tengono legata l'Italia, caro Renzi, riguardano l'Italia, non l'Europa
Fermiamoci un attimo, riavvolgiamo il nastro, mettiamo insieme i puntini e proviamo a ragionare. Renzi e l’Europa. Renzi e Juncker. Renzi e la flessibilità. Renzi e la tecnocrazia. Renzi e la stabilità. Renzi e la finanziaria. Renzi e le tasse. Renzi e la Merkel. Tema numero uno: ha un senso o no la battaglia del presidente del Consiglio in Europa? Tema numero due: ha un obiettivo o no la battaglia del presidente del Consiglio in Europa? Tema numero tre: hanno un senso o no le critiche che l’Europa rivolge al presidente del Consiglio?
Svolgimento. La risposta al primo punto è sì: la battaglia di Renzi in Europa ha senso, eccome se ce l’ha, e ha un senso sia il tentativo (a) di dimostrare che l’Europa che chiude i confini è un’Europa che si avvicina al suicido sia (b) il tentativo di rivendicare l’accordo politico in base al quale, due anni fa, nacque la Commissione Juncker: crescita, investimenti, flessibilità. Può piacere o no ma la Commissione, a guida Ppe, nacque seguendo questa direzione e due anni dopo non c’è dubbio che quella direzione non sia stata rispettata (il piano d’investimento di Juncker resta ancora un oggetto misterioso).
Tema numero due: ha un obiettivo o no la battaglia del presidente del Consiglio in Europa? Qui iniziano i dolori. L’obiettivo di Renzi – che si è complicato nelle ultime ore in virtù di una crescita che nel 2015 è stata sovrastimata di alcuni decimali – è evidente. Ottenere qualcosa in più per il proprio paese e provare a beneficiare della stessa generosità che è stata concessa negli ultimi anni a paesi come la Spagna e come la Francia. Renzi vuole due cose. Vuole che la legge di stabilità per l’anno 2016 sia vidimata senza correzioni dall’attuale Commissione per evitare (incubo renziano) l’ingresso in scena di una qualche clausola di salvaguardia per far quadrare i conti (aumento dell’Iva, aumento delle accise). In secondo luogo, come si dice, vuole che la Commissione conceda flessibilità anche per il prossimo anno, quando i parametri del famoso fiscal compact diventeranno operativi.
Problema centrale: il metodo adottato da Renzi è quello giusto per raggiungere questi obiettivi? Siamo sicuri che in Europa la leva mediatica dello scontro frontale funzioni più della leva diplomatica dello scontro non mediatico? Nessuno oggi può rispondere con ragionevole certezza a questa domanda e i prossimi mesi ci diranno se Renzi riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi. Ma un dato, per essere onesti, va colto e riguarda quella che forse è stata un’occasione persa da Renzi. Due anni fa, ai tempi delle Europee, Renzi era senz’altro il leader europeo più rispettato dopo Angela Merkel, e il fatto che il suo Pd, nel 2014, fu uno dei pochi partiti di governo a trionfare alle elezioni (partito più votato d’Europa) non passò inosservato. Ma due anni dopo il bilancio di Renzi in Europa qual è? Alti e bassi. Renzi è riuscito a ottenere, nelle ultime due manovre, quell’anticchia di flessibilità che cercava ma ha pagato un limite importante della sua politica: non essere riuscito a fare ciò che invece da anni risulta facile ai suoi colleghi europei, ovvero entrare a gamba tesa dentro i meccanismi della burocrazia europea. Aver scelto Federica Mogherini come rappresentate dell’Italia nella Commissione è stata una mossa che non ha pagato fino in fondo ed è significativo che il politico più importante presente nella Commissione è un politico di fatto sconfessato dal presidente del Consiglio. Il ruolo di Padoan, in questi mesi, è stato importante (meno chiaro invece il ruolo di Gozi, diciamo). Ma nell’attesa di capire quali saranno i frutti del lavoro di Calenda a Bruxelles (buona mossa) il sospetto è che puntare sul lato mediatico più che su quello diplomatico sia una scelta necessaria per Renzi per una ragione semplice: la diplomazia italiana, in Europa, sostanzialmente non esiste e per ottenere qualcosa Renzi non può che battere i pugni sul tavolo dello scontro mediatico. I socialisti europei, soprattutto sul fronte della Spd, hanno lanciato segnali di solidarietà nei confronti del premier italiano ma la lontananza tra Italia e Francia, anche nella famiglia socialista, pesa ed è eloquente che dalla presidenza e dal governo francese non siano arrivate sponde utili per rendere più semplice la partita di Renzi (Hollande, probabilmente, non ha mai perdonato a Renzi di non essersi impegnato con l’Italia in Siria dopo il Bataclan).
[**Video_box_2**]La terza questione è però forse la più importante: hanno un senso o no le critiche che l’Europa, più o meno velatamente, rivolge al presidente del Consiglio? Su alcuni temi l’Europa ha ragione. Chiedere maggiore flessibilità, come fa Renzi, senza abbattere il debito pubblico e senza ridurre la spesa corrente è una scelta legittima, naturalmente, ma presenta dei punti di debolezza. Renzi ripete spesso di fronte alle critiche europee (soprattutto quelle del Ppe) che l’Italia ha fatto i compiti a casa e che il nostro paese non ha bisogno di prendere lezioni da nessuno. Eppure qualche lezione l’Italia dovrebbe ancora prenderla. Potrebbe prendere appunti dall’Inghilterra su come si mette in moto un sano meccanismo di spending review. E potrebbe ricordarsi che c’è una ragione precisa se l’Italia, in Europa, è uno dei paesi che cresce di meno. Senza liberalizzazioni forti, senza tasse tagliate, senza aumentare la spesa, senza risparmi potenti nella macchina pubblica è naturale che l’Italia sia ancora incatenata. E dunque Renzi fa bene a fare la sua battaglia in Europa, e probabilmente riuscirà anche a vincerla. Ma c’è un errore che il presidente del Consiglio deve evitare con attenzione: l’errore di scaricare sull’Europa le responsabilità dei problemi dell’Italia. Fino a quando si parla di immigrazione, Renzi ha pienamente ragione. Se si parla di economia, prima degli errori e dei limiti europei, ci sono i limiti e gli errori dell’Italia. In due anni di governo il presidente del Consiglio ha ottenuto molti risultati, soprattutto dal punto di vista istituzionale, e in virtù di queste riforme è comprensibile chiedere un cambio di passo all’Europa (la riforma elettorale e la riforma del bicameralismo sono temi considerati da anni in Europa cruciali per rendere il nostro paese più maturo e funzionale). Ma prima che da Juncker il cambio di passo vero, sull’economia, il presidente del Consiglio forse dovrebbe chiederlo al capo del governo italiano.
Il momento per il cambio di passo è questo. Nemici politici non ci sono. Il Parlamento, pur di arrivare al 2018, sarebbe disposto ad approvare qualsiasi cosa (il Senato ha persino votato l’abolizione del Senato). Renzi, nonostante i dati economici non esaltanti, ha ancora il vento in poppa. L’Europa può cambiare verso, naturalmente. Ma prima di scaricare le colpe sui vincoli dell’Europa forse è arrivato il momento di capire quali sono i vincoli che spesso non permettono al governo di correre come forse potrebbe.