La scappatella vegetariana del Cav. tra carni deboli ed elezioni in vista
In principio era la carne. Agognata e venerata, esibita e consumata nella sua trionfale quotidiana apocalisse (vuol dire svelamento, più o meno) da un Silvio Berlusconi bulimico di vita, di sole, di vittorie e di sorrisi. Adesso che il Cav. si converte al vegetarianesimo – o almeno così dice perché “da quando ho letto delle sofferenze degli animali che viaggiano verso il macello, e quindi verso la morte, m’è passata la voglia di mangiare carne. Posso farne a meno, della carne. E lo farò. Stiamo parlando di creature meravigliose. Come si fa a ucciderle? Come si fa a mangiarle?” –, adesso che il grande impresario di Arcore si vota alla penitenza animalista, lì dove l’osservatore distaccato non potrà fare a meno di ammirare l’ulteriore incarnazione psico-politica berlusconiana, il detrattore collettivo ci vedrà un furbo accesso di michelavittoriabrambillismo pre-elettorale, la prosecuzione del “Drive in” con mezzi newagers. Un po’ è vero, un po’ no.
Le carni del Cav. sono il sangue della sua carriera e vanno dall’allevamento di calciatori fuoriclasse nel Milan all’inventario delle cosce femminili liberate dall’oppressione in bianconero della Prima Repubblica, per essere poi precipitate nel ludico situazionismo della tivù commerciale a colori. Volgarité? Modernità. Fatta di sostanza sanguigna anche seriale, carnascialesca, e sfrontata nel capovolgere il presunto diritto esclusivo degli intellò almodovariani a rappresentare la loro carne (“Carne tremula”, naturalmente). Perché tutto in Berlusconi è stato ed è carnalità come antonomasia, forza taurina (ma col sorriso del picador messicano nell’arena della corrida), energia focosa e nient’affatto casta; la sua biografia è una specie di Anti-Dühring che fa giustizia dello spirito esangue, anemico e velenosamente autocolpevolizzante con il quale tanti suoi arcinemici hanno cercato di espiare la propria origine piccolo borghese.
[**Video_box_2**]E adesso che ti combina, Berlusconi?, si fa monaco animalista, giustamente orripilato dai mattatoi contemporanei concepiti come universi concentrazionari per bestie chine e allucinate, si dona allo spirito della rinuncia e, in definitiva, al legittimo sospetto che in questa sua scelta si nascondano le cupe iridescenze della senilità, la sopraggiunta consapevolezza dei confini imposti dalla natura al proprio sé biologico, se non perfino la muta volontà espiatoria del collezionista seriale di passionalità. Ovvero – mi voglio rovinare – c’è una punta di saggezza? Oriente, occidente, Buddha e Pitagora, maestri nel disciplinare il rapporto tra l’elevazione dello spirito e il consumo di sostanze grevi, eccitanti ostacoli alla trasmutazione interiore, e spesso rivestimento di anime umane condannate a patire l’incarnazione vile della bestia… sconsigliabile cibarsene. Ma deve esserci dell’altro, e infatti qui è anche questione di animalismo compassionevole, quella forma di militanza morale che nelle persone ridestate induce ad accompagnare con una prece il raro boccone carneo, purché ben macellato – “che gli dèi ti offrano una possibilità vitale superiore” – e nei cuori delicati, spesso proprietari di cani o gatti o peluche quadrupedi, con l’avanzare degli anni e il dilagare di Instagram suggerisce d’amare come te stesso la tua prossima preda naturale (i cinghiali ringrazieranno). Il fatto poi che costoro, gli animalisti compassionevoli, siano dotati di certificato elettorale, nella conversione berlusconiana un tantino c’entra, inutile negare. Ma diremmo forse che la sua è soltanto una scappatella vegetariana, perché in fondo la carne delle urne è debole? Chissà. L’ho visto con questi occhi, qui al Foglio, vezzeggiare il barboncino Rufus come fosse una cosa a metà tra il padrone di un potenziale suo elettore e un abbacchio con patate.