Perché è il momento di rivoluzionare il concorso esterno
La lunga e tormentata vicenda giudiziaria del concorso esterno si è arricchita di un nuovo capitolo, che ha suscitato ancora una volta – com’era del resto prevedibile – reazioni contrastanti. Ci si riferisce alle opposte prese di posizione mediatiche, in termini di esplicita condivisione o di altrettanto chiara presa di distanza, provocate dalla lettura della motivazione della sentenza catanese di non luogo a procedere nei confronti dell’imprenditore Mario Ciancio. In alcune parti di tale motivazione il gip ha, infatti, riproposto le ragioni di problematicità del concorso esterno quale istituto carente di una descrizione legislativa precisa; e, nel farlo, ha non a caso richiamato più volte la ormai nota sentenza della Corte di Strasburgo relativa al caso Contrada, la quale ha appunto ravvisato nel concorso del reato associativo una fattispecie di formazione giurisprudenziale. Come stanno realmente le cose? Chi ha davvero ragione in questa sorta di guerra ideologica o di religione che ciclicamente si scatena tra i due partiti dei difensori e dei critici del concorso esterno, come se si trattasse di dovere scegliere tra concezioni contrapposte della legalità penale? In realtà, il discorso è molto complesso, per cui non è facile farsi capire con la semplicità e brevità richieste da un intervento giornalistico. Ma possiamo provare a spiegare gli aspetti essenziali della questione, prescindendo beninteso dal merito del recente caso catanese e ragionando in termini più generali. Una premessa è fuori discussione. In un ordinamento giuridico come il nostro, il principio di legalità in materia penale esige non solo che i reati siano definiti dal legislatore (principio cosiddetto di riserva di legge), ma che il legislatore li definisca nella maniera più precisa possibile (principio cosiddetto di sufficiente determinatezza o precisione), onde evitare che sia il giudice a stabilire di volta in volta a sua discrezione i fatti punibili. Ora, sotto l’aspetto del principio di legalità così concepito, un istituto come il concorso esterno nel reato associativo presenta alcune peculiarità. Ciò nel duplice senso che esso, per un verso, è privo di una previsione legislativa puntuale e specifica (a differenza ad esempio della norma sull’omicidio, sul furto, sulla violenza sessuale o sull’associazione mafiosa ecc., nessuna specifica norma penale definisce infatti il concorso esterno come tale, né tanto meno ne descrive i requisiti costitutivi) e, per altro verso, risulta abbastanza generico e indeterminato nella sua fisionomia con conseguente incertezza circa l’ambito e i confini della punibilità.
Attenzione, però: affermare che manca una legge che lo preveda espressamente non equivale in realtà a sostenere che il concorso esterno sia del tutto privo di base normativa, e sia perciò il frutto di una vera e propria invenzione da parte dei giudici. Come ben sanno anche gli studenti di giurisprudenza, un suo fondamento legale esiste e deriva – per dirla in “giuridichese” – dal combinato disposto della norma incriminatrice relativa al reato in questione (nel nostro caso, l’associazione mafiosa di cui all’art. 416 bis del codice penale o altra fattispecie associativa) con le più generali norme sul concorso di persone (artt. 110 e segg. c.p.), che consentono di estendere la punibilità anche ai concorrenti o complici. In altre parole, l’operazione logico-giuridica sottostante al concorso esterno riproduce, fondamentalmente, lo stesso schema concettuale che più in generale presiede al concorso di persone in un medesimo reato: sono infatti le stesse norme generali sul concorso criminoso che permettono di punire ad esempio come complice di un omicidio chi fornisce l’arma all’assassino, oppure come concorrente (esterno) il politico o l’imprenditore che – pur senza far parte integrante della struttura associativa – fornisce contributi vantaggiosi a una associazione criminale. Nessun problema, allora? No, il problema ciononostante esiste, come cerchiamo ora di spiegare, scusandoci di qualche possibile eccesso di tecnicismo. In effetti, il cuore della questione sta nella estrema genericità della disciplina normativa del concorso criminoso. Ciò perché l’art. 110 del codice penale si limita, dal canto suo, molto laconicamente ad affermare che tutti i concorrenti in uno stesso reato soggiacciono alla pena per questo stabilita; ma né l’art. 110, né altra disposizione del codice dicono una parola sui requisiti e sui tipi di comportamento che fanno da necessario presupposto a un concorso punibile.
Ecco che, in conseguenza di questa disciplina molto lacunosa (una clausola “in bianco”), il compito di individuare i presupposti fattuali della punibilità del concorso criminoso è stato di fatto delegato agli interpreti giurisprudenziali e dottrinali. Da qui, un proliferare di teorie e di orientamenti, che non ha certo giovato alla certezza giuridica. Ma, se è vero che l’istituto del concorso di persone risulta a tutt’oggi tra i più indeterminati già a livello generale, è altrettanto vero che il problema si complica e si aggrava proprio nel caso del concorso esterno nel reato associativo: questo tipo di reato ha infatti, a confronto di classiche figure criminose come l’omicidio o il furto e simili, una struttura assai più indeterminata, per cui il coefficiente complessivo di indeterminatezza cresce a causa del sommarsi di due congenite indeterminatezze (quella del concorso criminoso e quella del reato associativo).
Senza procedere oltre in questa sorta di dissertazione professorale, veniamo al dunque e chiediamoci: come intendere il concreto ed effettivo “contributo causale” alla vita o al rafforzamento dell’associazione criminosa, che, secondo la Cassazione, costituisce la ragione della punibilità del concorso esterno? Per esemplificare: è sufficiente, perché si verifichi un rafforzamento dell’associazione criminale, che un politico le prometta l’assegnazione di un appalto, oppure è anche necessario provare che l’appalto è stato effettivamente concesso con conseguente concreto vantaggio per gli associati? Le sezioni unite della Cassazione (con la celebre sentenza Mannino del 2005) hanno infine affidato la soluzione di questo nodo ai magistrati di merito, sollecitati a verificare in base alle peculiarità dei casi concreti se e quando la semplice “promessa” possa integrare gli estremi di un contributo penalmente rilevante. Verifica in sé tutt’altro che agevole, e inevitabilmente esposta a non piccoli margini di opinabilità.
Comunque sia, dal momento che è stata finora soprattutto la magistratura a farsi carico del compito di (tentare di) dare un volto più definito alla figura normativamente evanescente del concorso esterno, la Corte di Strasburgo ha senz’altro ragione: nel senso che la fattispecie di concorso esterno è davvero di sostanziale matrice giurisprudenziale (con la conseguenza che, ai fini del rispetto del principio di legalità nella accezione europeo-convenzionale, occorre fare riferimento alla fase temporale a partire dalla quale nella prassi giudiziaria è maturato un orientamento interpretativo conoscibile e prevedibile da parte dei cittadini). E invano la nostra Corte di cassazione (sent. 7 agosto del 2015), cercando di rivendicare un orgoglio giuridico nazionalistico e con l’intento di “bacchettare” i giudici europei, ha ribadito l’origine “legale” del concorso esterno sulla base del mero combinato disposto degli artt. 110 segg. e 416 bis del codice penale. Infatti, specie nell’ottica del cittadino interessato a essere informato in anticipo sul discrimine tra lecito e illecito penale (che è, com’è noto, l’ottica che più sta a cuore ai giudici interpreti della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), non può essere una base legislativa priva di concreto contenuto ad assumere rilievo determinante: ciò che conta è che almeno la giurisprudenza riesca a dare un volto afferrabile al reato grazie alla sua attività di concretizzazione ermeneutica. E’ per questa ragione che il principio di legalità in materia penale oggi va riveduto e integrato nella prospettiva della giurisprudenza di Strasburgo, non più accontentandosi della mera riserva di legge: ma includendo, nello spettro di una legalità penale più progredita e adeguata al nostro tempo, anche la prevedibilità da parte dei potenziali destinatari del contenuto della decisione giudiziale (con riferimento sia alla qualificazione del fatto come reato, sia al tipo di trattamento punitivo in cui si può incorrere).
Ora, bisogna dare atto che la Cassazione – intervenendo più volte a sezioni unite – si è meritoriamente sforzata di supplire per via interpretativa alla congenita vaghezza del concorso esterno. Tuttavia, non soltanto a mio parere, una soluzione davvero appagante dei persistenti nodi problematici sembra ancora lontana. E questa insoddisfazione non si avverte soltanto sul versante delle garanzie individuali: perduranti incertezze sui presupposti e sui limiti di punibilità della contiguità alla mafia pregiudicano, nel contempo, l’efficacia dell’azione repressiva. Da qui, anche il ciclico riproporsi dell’interrogativo se non sia il caso di costringere il legislatore ad assumersi, una buona volta, la responsabilità di definire con chiarezza i requisiti del concorso nel reato associativo. Tanto più che, in base al principio costituzionale della divisione dei poteri ancora vigente (almeno) sulla carta, una tale responsabilità gli spetterebbe in via prioritaria. Ma, passando dalla teoria costituzionale alla realtà politico-partitica odierna, un serio impegno legislativo in questa direzione sembra esulare da ogni previsione realistica.