Tradito, profanato, macellato, a volte scomparso. Il corpo della nazione
Il corpo degli italiani. Corpi nella trama dell’assurdo contemporaneo. Corpi di un’autobiografia collettiva. Corpi inanimati rianimati dalla cronaca. Corpi che vivono in un paese inconsapevole. Corpi della nazione. Corpi oggetto di contesa, di attesa. Corpi catturati, trasportati, legati, picchiati, torturati, umiliati. Corpi crivellati. Corpi profanati dalla guerra. Corpi oggetto di autopsia tribale, legale, nazionale, internazionale. Corpi che diventano suk politico, merce di scambio, mercatino d’opinione. Corpi finiti prolungati nell’infinito dispiegarsi del male. Corpi nel deserto. Corpi nel sacco. Corpi nell’aereo. Corpi di italiani. Salvatore Failla e Fausto Piano. Nomi. E voci che provengono da un aldilà (s)conosciuto, la Libia, dove il metallico avanzare della Grande Mietitrice esonda dalla registrazione della telefonata di Failla, si stampa sul volto pietrificato dal dolore della moglie, il nome ora sfiorito di speranza, Rosalba. “Aiutami, sono rimasto solo”. Non è la voce, è il corpo che parla. “Autopsia di Failla e Piano a Tripoli”, dice il lancio d’agenzia. Brividi. “L’autopsia di Tripoli è stata una vera e propria macelleria”, dice l’avvocato. Rabbia. Perché quei corpi sono nostri. Siamo noi. E’ la loro violazione a illuminare la verità: sono italiani. Come Giulio Regeni, 28 anni, di Fiumicello, studente a Oxford, rapito al Cairo, torturato per una settimana. Un assassinio in cerca d’autore che finora ha trovato solo il silenzio e le manovre diversive delle autorità egiziane. Un gioco di fumo e specchi sul corpo di un giovane studioso italiano. Dopo la morte, l’ombra sinistra dell’inganno. L’incalcolabile perdita per una madre e un padre. E il referto, le analisi, fredde, precise, definitive: “Frattura di una vertebra cervicale causata da un violento colpo al collo. Violento pestaggio. Abrasioni. Lesioni”. La demolizione del corpo, pezzo dopo pezzo. Nel deserto, assistiamo alla macabra rappresentazione dell’impotenza, alla cerimonia del corpo a corpo tra verità e menzogna.
Il corpo degli italiani. Emerge dalla guerra espunta, cancellata dalla memoria, inesistente nel presente come realtà, possibilità, eventualità, rientra cubitale nell’impaginato della collettività, strillato sullo schermo ultrapiatto, ossessione in alta definizione, diventa l’inesorabile casualità dell’edizione straordinaria, mai quotidianità. Libia, Siria, Pakistan, Afghanistan, Iraq, Libano, Somalia, Egitto. Mondi lontanissimi per l’italiano medio, alto e basso, un’esperienza esotica, una riduzione in pixel, a volte un like su Facebook, la distratta fiction di un’irrealtà che esiste solo nella fatica di vivere (e morire) di altri italiani. Non noi. Sono sempre gli altri. Sono soldati in divisa con lo zaino in spalla, passano inosservati negli aeroporti, nelle stazioni. Corpi che tornano a casa. E ripartono. Round one. Round two. Round three. Kabul, Herat, Baghdad, Mosul, Al Mansouri, Shama, Mogadiscio, Tripoli, Sirte, Bengasi, Multan, Raqqa. Luoghi remoti. Città invisibili senza il fantastico di Italo Calvino, le trame di Marco Polo e il Kublai Khan. E’ tutto dannatamente terrestre, fugace, caduco, è la geografia dei corpi degli altri. Sono civili che prestano l’ingegno alla ricostruzione, alla cooperazione. Corpi che respirano, progettano, pregano, amano, parlano, scrivono, raccontano, lasciano un segno. Corpi che non esistono, finché la cronaca non li sbalza fuori dall’oblio e diventano corpi terminati della nazione che ignora il suo corpo vivo e lo ricorda per un istante da morto.
Il corpo che non c’era. Chi ricorda Giovanni Lo Porto da Palermo, classe 1977, figlio di Josepha e Giovanni? Un corpo italiano, vibrante e sorridente, un abbraccio di sole tra i bambini. Lo rapirono al confine tra Pakistan e Afghanistan, a Multan, il 19 gennaio 2012. Il corpo di un cooperante italiano nelle grinfie dei terroristi islamici. Il corpo di un ragazzo che amava il Pakistan e aiutava le popolazioni colpite dalle inondazioni. Il corpo esposto alle bombe sganciate da un drone americano nel gennaio 2015. Lo Porto diventa il corpo che non c’è. Si dissolve nella metafora della guerra sullo schermo, la dronizzazione della realtà, la sua trasfigurazione a schermata del videogame, un letale tocco di joystick da un’altra parte del mondo. Missione fallita. Scuse del presidente Obama. Giovanni, bersaglio involontario, il corpo dissolto, ritorna in Italia quattro mesi dopo per “la degna sepoltura”. L’onore ai defunti, il rispetto del corpo.
Il corpo dimenticato. Dov’è padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita rapito nei dintorni di Raqqa nel luglio del 2013? Due anni e otto mesi di silenzio. Giorno dopo giorno, come una goccia cinese, quel corpo si consuma, diventa un pensiero liquido, diluito, evapora. E il paradosso della vita che prosegue si costruisce sull’assenza del corpo, l’unica speranza. E’ lo stesso destino di Rolando Del Torchio, chi era costui? Un altro corpo italiano, rapito nelle Filippine nell’ottobre 2015. Eclissato. Scriveva Fernando Pessoa: “La morte è la curva della strada / morire è solo / non essere visto”.
Il corpo della nazione è una scoperta lancinante, una fitta improvvisa al cervello, un diventare presente a se stessi che disturba, bussa alla coscienza con pignoleria e insistenza e chiede una cosa fin qui mai immaginata: l’azione. Diventa il corpo dello Stato, l’Italia esposta all’offesa, alla percossa, al taglio, alla violazione, alla profanazione del sacro, la vita. Il ricatto all’Italia. E improvvisamente quel corpo così unico, fragile, prezioso e privato, diventa pubblico, italiano. La profanazione del corpo diventa orrore collettivo. Il corpo incatenato diventa un memento. Il corpo da slegare. Il corpo oggetto di trattativa sempre, di riscatto a volte, ma di forza liberatrice mai. L’eroismo e il sacrificio sono un’educazione civile. Pochi sono come Nicola Calipari. Il corpo di stato in Italia non esiste, appare. E poi, vivo o morto, scompare.
Mario Sechi