Il patto tra Renzi e imprenditori, in 5 punti
Roma. Consenso o buon senso? “L’Italia sta vivendo una fase cruciale, e in questa fase la velocità è un fattore determinante; bisognerebbe riuscire a mettere in atto le misure necessarie, di buon senso mi verrebbe da dire, senza tenere conto del consenso”. Quindi: meno consenso e più buon senso? “Non sono un politico ma un imprenditore, e da imprenditore posso solo dire che mi auguro che gli anni a venire siano indirizzati dal governo Renzi per completare quanto di buono è stato fatto finora, con riforme di buon senso, e magari ancora più coraggiose. Anche perché mi sembra difficile dire, come leggo talvolta, che l’Italia sia uscita dalla crisi: però è indubitabile che ci sia la possibilità di costruire un percorso per superarla davvero, la crisi. Non dipende solo da noi, certo. Ci sono alcuni fattori esterni, e questo lo sappiamo. Ma se non dipende solo da noi, è indubbio che dipenda soprattutto da noi: credo che serva uno sforzo complessivo di istituzioni, classe dirigente in generale, imprenditori. Insomma di tutti quelli che hanno a cuore il paese, e che ne hanno la possibilità, che devono aiutare l’Italia a fare i necessari passi in avanti”. Siamo a Roma, è martedì 15 marzo, e di fronte a noi c’è Alessandro Benetton, imprenditore, fondatore e presidente, dal 1992, della 21 Investimenti, gruppo europeo di private equity, e già presidente di Benetton Group (fu presidente nel momento della transizione da lui guidata da azienda familiare ad azienda manageriale). Benetton, che solitamente non parla mai di politica, accetta di conversare a ruota libera con il Foglio di economia, di governo, di imprenditoria, di Confindustria e la nostra chiacchierata prende spunto da quella che sembra la domanda delle domande. Ancora quella: consenso o buon senso? Che tradotta vuol dire: da dove bisogna partire per evitare che la spinta di cui dispone questo governo sia finalizzata nei prossimi mesi a occuparsi più di voti (consenso) che di riforme (buon senso).
“La mia è un’ottica puramente imprenditoriale, quindi tra consenso e buon senso privilegio il secondo. Anche se per me le parole chiave per una nuova stagione di crescita sono altre: discontinuità, coraggio, cambiamento. L’Italia – dice Benetton – sta vivendo una rivoluzione positiva di cui Renzi è stato certamente protagonista. Ma, appunto, per continuare la rivoluzione è necessario osservare l’operato di un governo togliendoci gli occhiali della politica e indossando gli occhiali dell’imprenditoria. Un premier è soprattutto un manager, un amministratore dello stato delegato dai cittadini che, per lui, sono come gli azionisti. E io dico che in questo contesto, oggi, c’è uno spazio importante che potrebbe mettere il governo nelle condizioni di aiutare gli imprenditori a liberare le loro energie. Cosa andrebbe fatto? Nessuno ha ricette e soluzioni magiche ma credo che se Renzi volesse costruire un patto culturale con il mondo produttivo dovrebbe puntare su cinque temi cruciali: pubblica amministrazione, tasse, produttività, giustizia, fallimenti. Spacchettiamo il nostro ragionamento e andiamo con ordine. In Italia, ‘pubblica amministrazione’ è troppo spesso sinonimo di burocrazia. E questo è un sintomo dell’impasse di fronte a cui imprese e cittadini si trovano: il nostro paese è intrappolato in un sistema che usa le regole non per normare ma semplicemente per bloccare. Ci sono molti esempi che si potrebbero fare per inquadrare il punto. Ma l’esempio centrale è da collegare al tema degli appalti. Ci si chiede giustamente perché in Italia vi sia un tasso di corruzione così elevato, ma troppo spesso ci si limita a ridurre la questione a un rapporto tra corrotto e corruttore. Purtroppo non è così: la burocrazia esagerata è in una certa misura complice del sistema corruttivo. Quindi, per ridurre la corruzione, i livelli di intervento dovrebbero essere molteplici: punire i colpevoli, certo, ma lavorare anche sulla prevenzione, semplificando un sistema che troppo spesso sembra un Leviatano capace solo di complicare e di impedire agli imprenditori di liberare le loro energie”. Tasse. “Sulle tasse, sono fermamente convinto che i privilegiati, chi guadagna di più, debbano anche pagare di più per il benessere della collettività. Detto questo, non credo sia una questione di destra o di sinistra dire che senza un abbattimento robusto della pressione fiscale non vi sarà una vera crescita nel nostro paese e che, senza crescita, non si crea occupazione. L’imprenditoria, in un contesto del genere, ha poi un ruolo centrale: può essere un collante sociale, particolarmente prezioso nei momenti di difficoltà”. Andiamo avanti: produttività. “Negli ultimi anni, l’Italia è tornata a essere un paese che riesce a catturare un maggior numero di investitori stranieri rispetto al passato, lo vedo ogni giorno lavorando con 21 Investimenti. E certamente in questo ha giocato un ruolo decisivo il clima di stabilità che si è creato. Tuttavia, non posso non riconoscere che il nostro paese abbia ancora un grave deficit sul terreno della produttività. E se sommiamo a questo il rigetto culturale che ha l’Italia della parola fallimento il quadro è chiaro. Bisognerebbe prendere esempio dalla Francia e dall’Inghilterra, e distinguere l’insuccesso (che è da mettere in conto in ogni attività d’impresa, soprattutto in quelle dei giovani) dal fallimento vero e proprio. Quante imprese oggi diventate colossi sono nate da imprenditori che avevano compiuto prove ed errori?”.
Benetton prosegue il suo ragionamento e nel tratteggiare un piccolo manifesto culturale su ciò di cui il paese avrebbe bisogno per liberare le energie degli imprenditori sostiene che le responsabilità dell’arretramento del nostro paese siano da scaricare non solo sulla politica ma anche sulla stessa classe dirigente italiana.
“Dobbiamo essere onesti. I paladini dello status quo, in Italia, non sono presenti solo nel mondo della politica ma sono presenti – e in modo piuttosto energico – anche nel mondo dell’imprenditoria. Una parte della classe imprenditoriale non ha voluto fare i conti con le trasformazioni del business e del modello di consumatore e si è arroccata difendendo l’esistente. Si è scelta la continuità rispetto alla discontinuità. Sono cambiati i paradigmi, anche le tipologie di impresa, sempre più digitali, soprattutto quelle fondate dai giovani. Anche la stessa Confindustria deve essere un grande sindacato capace di trasformare gli interessi dei singoli imprenditori in un motore di innovazione pensando prima di tutto agli interessi del paese. Il mondo sta cambiando”, prosegue Benetton. “Il mercato è più veloce, è più snello, i consumatori cambiano idea a grande velocità, i modelli organizzativi sono stati stravolti, il lavoro cambia con una rapidità mai vista prima, alcuni vecchi lavori – pensi solo all’ultima volta che lei è andato in banca – sono stati spazzati via a una velocità sorprendente. Il cambiamento è un imperativo, e questo vale tanto nel mondo dell’imprenditoria quanto in quello della politica. E allora torniamo alle parole chiave di cui parlavamo all’inizio: discontinuità, cambiamento, coraggio”. La conversazione con Alessandro Benetton scivola via e si torna rapidamente al ragionamento iniziale. “Ho cominciato a fare il lavoro che faccio quando avevo ventisei anni e sono convinto che sia necessario essere molto giovani per cambiare le cose in un paese come l’Italia. Da questo punto di vista credo sia un bene che ci sia una classe dirigente al governo molto giovane, de-ideologizzata, per certi versi incosciente che non si vergogna – tratto che trovo positivo, non negativo – di cambiare qualche volta idea. Non mi pongo il tema se questo governo sia di destra o di sinistra, ma mi interessa ciò che fa. E sono convinto che ci siano delle cose che più passa il tempo e meno è probabile che vengano fatte. Per tornare al mondo dell’imprenditoria non faccio fatica a riconoscere che Renzi fa bene ad assecondare un nuovo modello di capitalismo in cui i grandi cambiamenti sono governati più dal mercato che dallo stato. E’ giusto. Economicamente parlando, oggi possiamo dire che il peggio è passato ma il meglio non è ancora arrivato”. Consenso o buon senso? La risposta è chiara. E chissà che alla fine il modo migliore di conquistare consenso non sia quello di fare semplicemente riforme di buon senso.