Perché in Italia la repressione penale è più cool del diritto penale
Al direttore - Si legge nel preambolo della seconda Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1793 che non solo il disprezzo ma anche l’oblio dei diritti è causa delle sventure del mondo. Quello stesso “oblio” ci rende oggi dimentichi delle nostre prerogative, dei nostri pregi e delle nostre potenzialità, della nostra stessa natura. Ci fa dimenticare di ciò che fummo, e di ciò che potremmo essere. Ci convince che i diritti (i nostri e quelli altrui) siano piuttosto beni da negare, perché minacciano la nostra tranquillità e ci rendono responsabili della nostra stessa libertà.
Non sono più i diritti al centro del dialogo fra individuo e potere, fra governo e cittadino, non più la richiesta di diritti e garanzie individuali, ma una generale richiesta di repressione penale. Perché l’ansia e l’incertezza non generano più nell’individuo un desiderio di limitare i poteri dello stato, di crescita degli ambiti di autonomia e di sviluppo della persona, ma producono solo la richiesta di un riconoscimento pubblico della propria debolezza, una continua cessione della propria sovranità individuale in cambio di sicurezza. Cresce così una richiesta di soddisfazione dei sentimenti di rifiuto dell’altro, di punizione di chi viola la propria pace e di chi minaccia il proprio territorio, la propria sfera di aspettative di sicurezza e di stabilità. Senza considerare che quel piccolo cerchio di tutela finisce così con lo stringere un inutile e misero recinto di illibertà, di “una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà”.
Il diritto penale, la sanzione, la repressione dei reati e la creazione infine di reati di nuovo conio, appaiono oggi le aspettative che meglio soddisfano le richieste della collettività. Non più il vedere riconosciuti diritti per se stessi, ma vedere sottratti i diritti degli altri è ciò che appaga e ciò che illude la postmodernità. Abbandonata la tradizionale aspettativa delle garanzie di libertà e di indipendenza per le nostre vite, chiediamo solo pene per le esistenze altrui, divenendo così vittime di una vera e propria dipendenza dalla penalità repressiva, “criminal law addict”.
Non si tratta, evidentemente, di non tenere conto della diffusa insicurezza (percepita), ma di rispondere correttamente alle legittime ansie di chi si sente esposto al delitto, informando che sono proprio l’assenza di trattamento e di misure alternative e la pura retribuzione a elevare il grado di recidiva e ad aumentare dunque l’insicurezza (effettiva). Il punto non è dunque, ovviamente, la rinuncia al processo e alle pene che esso eventualmente produce, ma di modularne la certezza in termini di “certezza del trattamento” e del recupero piuttosto che di esclusiva “certezza della retribuzione”.
Un popolo disinformato plaude invece soddisfatto vedendo che la “politica” risponde alle richieste di penalità. Ringhia all’apertura di tavoli sull’esecuzione penale che aprono a nuove forme di trattamento conformi al recupero e al reinserimento. Si va così costruendo una società nella quale il pensiero è orientato in senso manicheo e le categorie del male vengono disegnate di volta in volta intorno ai soggetti più disparati (politici corrotti, extracomunitari, impiegati fannulloni…) ma sempre con le medesime cadenze apodittiche e assertive per le quali il sospettato è già reo, l’arrestato è già condannato, il condannato è già reietto. Non solo, tuttavia, aumenti delle pene, abolizione dei benefici per i reati più gravi, certezza della pena come pura afflizione, caratterizzano il panorama, ma anche soprattutto l’elaborazione di nuove forme di glamour per la penalità, costruite coniugando sapientemente i vecchi e intramontati arnesi della gogna, dell’esposizione al ludibrio, della mortificazione e reificazione dei corpi in ceppi, con i nuovi sofisticati e ipnotizzanti gadget mediatici capaci di magnificare le sorti progressive di ogni indagine e le virtù palingenetiche dell’ultima retata. Specchio non esaltante di una società cinica e intollerante, dai modesti gusti estetici, in cui lo spettatore gode di questa banale rappresentazione del male e lo proietta sempre e solo fuori di sé. Ancora una volta “salvo”.
Francesco Petrelli è segretario dell’Unione delle Camere penali italiane