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Cos'è la guerra per procura dei giudici contro la politica

Claudio Cerasa
Non sarà il caso di Potenza ma la domanda è più che mai attuale: come nasce il legittimo sospetto che la magistratura non sia al di sopra di ogni sospetto quando avvicina le antenne ai politici. Renzi tra petrolio e pm.

Sicuramente, questa volta, assisteremo a un’indagine perfetta, esemplare, sublime, senza macchie, senza malizie, senza fango, senza sbavature e senza magistrati pronti a sfruttare l’occasione ghiotta di una piccola inchiesta locale trasformata improvvisamente in un caso nazionale per assecondare la propria voglia di visibilità. Sicuramente, questa volta, non ci saranno intercettazioni senza rilievo penale gettate in pasto all’opinione pubblica e senza dubbio, questa volta, non ci saranno procuratori che triangoleranno maliziosamente con i giornalisti per alimentare la mostruosa macchina del processo mediatico. Sicuramente, non abbiamo alcun dubbio, trattasi solo di un caso che un’inchiesta sul petrolio le cui indagini si sono chiuse nell’agosto del 2015 sia detonata giusto a pochi giorni da un referendum che riguarda proprio il petrolio, e certamente, anche qui, è solo una fortuita coincidenza che in questa inchiesta di provincia abbia scelto di metterci la faccia, organizzando persino una conferenza stampa, lo stesso procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, che giusto poche settimane fa si era preoccupato di far conoscere al paese intero il suo giudizio sul ddl Concorrenza (ddl che, secondo Roberti, a causa di una norma sui notai voluta dall’ex ministro Guidi, “rischia di aprire le porte delle imprese italiane alle mafie”). Siamo, come si dice, altresì convinti che il giudizio del presidente del Consiglio sulla procura di Potenza – “In Basilicata le inchieste sul petrolio si fanno ogni 4 anni, come le Olimpiadi: non si è mai arrivati a sentenza” – sia fuori luogo e persino privo di fondamento e siamo certi che fosse prioritario e inderogabile che i magistrati della procura lucana considerassero un atto dovuto ascoltare come testimone informata dei fatti il ministro dei rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, per essere stata informata, in sospetto anticipo, della presenza di un emendamento in una legge votata dal Parlamento. Infine, come dice con un sorriso Giuliano Cazzola oggi sul Foglio, siamo certi che i magistrati di Potenza si sarebbero comportati allo stesso modo se nella notte del 17 ottobre 2014, durante i lavori sullo Sblocca Italia, un parlamentare avesse avvertito con una telefonata una qualche associazione ambientalista, vantando, magari a sproposito, il proprio ruolo avuto nel convincere il presidente della commissione Ambiente. Sicuramente, infine, l’inchiesta di cui stiamo parlando non è a orologeria, non è ispirata da un teorema ideologico, non vuole alimentare una mediaticizzazione del processo penale e non punta a ripetere le performance non troppo spettacolari di uno spettacolare magistrato già transitato con discutibile successo presso la procura di Potenza (Henry John Woodcock, con cui ha lavorato il sostituto procuratore Laura Triassi).

 

Siamo certi, dunque, che sarà tutto perfetto e lineare, nell’inchiesta su Tempa Rossa. Ma svolta questa piccola e scontata premessa bisogna inquadrare bene il problema, dire le cose come stanno e andare al cuore di una questione con cui il nostro paese, Tempa Rossa o non Tempa Rossa, si ritrova a fare i conti da più di vent’anni. Il tema è chiaro e forse persino scontato, e anche se la domanda rischia di essere retorica la facciamo lo stesso: è legittimo o no avere il sospetto che la magistratura non sia al di sopra di ogni sospetto quando avvicina le antenne al mondo della politica? Non sarà certo il caso di Potenza ma è difficile non notare che nella magistratura italiana esiste un forte sentimento trasversale che porta spesso i giudici e i magistrati a sentirsi una controparte della politica, più che una forza costituzionale autonoma votata all’indipendenza e alla terzietà. Non sarà il caso dei magistrati di Potenza ma un paese in cui le correnti della magistratura, e i singoli magistrati, si sentono in dovere di esplicitare le proprie idee intervenendo nel dibattito politico, anche a costo di porsi esplicitamente come delle controparti del potere legislativo ed esecutivo, è un paese in cui non può che esserci il sospetto costante che alcune offensive giudiziarie siano finalizzate a intervenire sul diritto della politica a prendere decisioni autonome. Renzi, nel suo buon intervento alla direzione di ieri, ha affrontato il tema con una certa leggerezza (“Se è reato sbloccare opere, io lo sto commettendo”) toccando però, seppure alla lontana, una questione cruciale: dove arriva il confine tra un intervento della magistratura finalizzato a perseguire uno specifico reato e un intervento della magistratura finalizzato ad arrestare una decisione del Parlamento (potere legislativo) considerata eretica dal punto di vista morale (dàgli al petrolio) prima ancora che dal punto di vista penale? Non sarà certamente il caso di Potenza ma è indubbio che da molti anni esista una tendenza chiara da parte di una minoranza chiassosa di magistrati a considerare (a) le attività economiche di per sé un indizio di reato e (b) le scelte politiche che le favoriscano come sintomo evidente di un diffuso malaffare. Pochi mesi fa, alla luce di questo problema, sul Corriere della Sera, giornale che un po’ a sorpresa ha scelto di non contrastare in modo chiaro una campagna mediatica dal sapore grillino finalizzata a rappresentare l’Italia come un paese schiavo delle lobby del petrolio, è intervenuto anche il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, con un invito esplicito ai giudici italiani: “Cogliere e prevedere le conseguenze delle decisioni giudiziarie, il loro impatto sull’economia e sulla società non può più essere considerato un tabù. E’ necessario prendere atto che al giudice non spetta più solo di fare comunicare norma e fatto. Dunque, se le sue decisioni producono conseguenze sistemiche, egli non può mai prescindere dalla previsione degli effetti del proprio rendere giustizia”. 

 

Il legittimo sospetto che la magistratura non sia al di sopra di ogni sospetto quando avvicina le antenne al mondo della politica è motivato anche da un’altra questione centrale che ricordiamo oggi nel nostro primo editoriale a pagina tre e che riguarda un punto importante: la discrezionalità totale di cui possono disporre i magistrati italiani.

 

Sul fatto che l’obbligatorietà dell’azione penale sia “una ipocrisia”, come sostiene persino il capo dell’Anac Raffaele Cantone, e che i magistrati usino spesso l’arma (la truffa) dell’obbligatorietà dell’azione penale per giustificare la scelta discrezionale dei reati da perseguire, non occorre ritornare. Sul fatto che invece esistano alcune tipologie di reato che permettono a un magistrato di aprire con facilità un fascicolo di indagine (e di sbattere qualcuno in galera) anche in presenza di prove tutt’altro che schiaccianti si potrebbero scrivere poemi se non fosse che per spiegare la grande discrezionalità di cui possono beneficiare i nostri pm e i nostri giudici potrebbe essere sufficiente fermarsi a riflettere su che cosa è il famoso traffico di influenze. Un reato, questo, punito con reclusione da uno a tre anni per “chi si avvale di relazioni con pubblici ufficiali e indebitamente fa dare o promettere, a sé o altri, denaro o utilità, come prezzo della propria mediazione”, che dà sostanzialmente la possibilità a un magistrato di formulare accuse di corruzione anche in assenza di un atto concreto di corruzione, sanzionando un comportamento che “potrebbe” sfociare nella corruzione, senza che essa sia stata effettivamente commessa.

 

Sulla questione della discrezionalità, naturalmente, andrebbe dedicato, nel manuale del garantismo imperfetto, un capitolo intero anche al tema delle intercettazioni e al modo in cui il circo mediatico-giudiziario consideri una condanna, una macchia indelebile, non soltanto essere intercettati, anche senza essere indagati, ma persino essere citati da qualcuno che viene semplicemente intercettato (quante volte avete letto la formula spesso incomprensibile “spunta il nome di…”).

 

E se tutto ciò non bastasse a rendere chiara la ragione per cui è legittimo avere il sospetto che la magistratura non sia al di sopra di ogni sospetto quando avvicina le antenne al mondo della politica (e anche a quello della politica industriale) potrebbe essere sufficiente ricordare non solo che le correnti della magistratura sono movimenti che hanno un loro specifico credo ideologico, ma che queste correnti spesso decidono di scendere in campo per difendere esplicitamente le proprie idee. E un paese, per esempio, in cui una delle più importanti correnti della magistratura (Md) decide di aderire pubblicamente “al Comitato per il No nel referendum costituzionale sulla legge di riforma Renzi-Boschi”, resterà sempre un paese in cui la magistratura non farà nulla per risolvere un dramma italiano: la difficoltà e spesso l’impossibilità a valutare l’azione delle procure ragionando solo sul piano del penale e non su quello della morale (e pensate cosa potrebbe succedere se da qui al referendum costituzionale dovesse “spuntare” un’inchiesta di un magistrato di Md contro un qualche volto del giro renziano). Un dramma italiano, dicevamo, che si somma poi a un dramma ulteriore che si manifesta ogni volta che la magistratura sfiora il mondo della politica: la certezza matematica che ogni inchiesta e ogni persona che verrà coinvolta in un’inchiesta daranno luogo a un grande processo mediatico e sommario in cui, a differenza del processo penale, non esiste una controparte che sia legittimata a ruggire contro l’Italietta a cinque stelle che sogna un paese governato dai portavoce delle procure. Chi ha commesso reati (se li ha commessi) deve essere ovviamente punito. Ma l’idea che ogni volta che vi sia un’inchiesta che riguarda la politica e l’imprenditoria sia necessario dover inghiottire tonnellate (spesso gratuite) di fango ci provoca un sincero sentimento di repulsione. E’ una macchina infernale che si scatena quando la macchina delle procure si avvicina a quella della politica. Oggi succede con il petrolio. Domani chissà.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.