Altro che golpe. Leggere Gramsci per capire che Renzi sta rivitalizzando il Pd
Il Pd è un partito monarchico? Gianni Cuperlo in direzione lo ha descritto con tono grave, oscuro, con le atmosfere cupe del Macbeth e le tre streghe che saltellano, un partito dove non c’è spazio per il dissenso. Cuperlo non sapeva di essere lui, proprio in quell’istante, la prova esatta del contrario. La direzione del Pd l’altro ieri ha mostrato un partito ancora pieno di voci, incomprensioni tra le fazioni, ma vivo. Non c’è nessun partito in Italia (tout court) che alimenta e mostra on air un dibattito così franco, duro, appassionato. Può piacere o meno la leadership di Matteo Renzi, il suo stile coriaceo, il suo essere sempre sopra le righe e mai sotto quando serve la diplomazia felpata, ma il Pd al cronista con il taccuino aperto non è apparso come la Terra Oscura di Mordor.
Il dispotismo renziano è semplicemente – inesorabilmente – un accorciamento della catena di distribuzione del motore del partito, un fenomeno in linea con quello che accade in tutte le forme contemporanee del Principe. In questo senso, il partito di Renzi è gramsciano, una versione reloaded dello strumento che organizza il consenso e lo trasforma in politica e arte di governo. La minoranza dem, Cuperlo, Speranza, D’Alema e soprattutto il laureato in filosofia Pierluigi Bersani dovrebbero rileggere con attenzione le note sul Machiavelli di Gramsci e, in particolare questa, datata 1930: “Principe potrebbe essere un capo di stato, un capo di governo, ma anche un capo politico che vuole conquistare uno Stato o fondare un nuovo tipo di Stato: in questo senso, ‘principe’, potrebbe tradursi in lingua moderna ‘partito politico’”. Se questo è il modello (e lo è) allora bisogna provare a scoprire gli ingranaggi della macchina per capirne il funzionamento. Finora Renzi ha usato poco o niente la segreteria e moltissimo invece la direzione. I numeri danno la dimensione della scelta. La segreteria del Pd è composta da diciotto persone, la direzione nazionale conta duecento membri. E’ un dato politico sul quale riflettere con attenzione perché va controvento e dice come la percezione del renzismo come esercizio del comando debba essere aggiornata. C’è una enorme differenza tra il format del Caminetto bersaniano e l’utilizzo di uno strumento largo – e democratico, si vota – come la direzione del partito. Renzi ha un bisogno fisico di confrontarsi, scontrarsi e contarsi dentro e fuori dal partito. Pensate al referendum costituzionale: poteva evitarlo e invece se lo è caricato sulle spalle perché Renzi ha bisogno di un bersaglio. E’ una prova di forza continua tra lui e gli altri che a una prima lettura sembrerebbe un fattore derivante da eccesso di testosterone (politico), in realtà è la mutazione più o meno consapevole di un modello. Renzi trascina il partito dal Novecento alla contemporaneità: la presidenza del partito è un ufficio a peso zero (Orfini, Zampa e Richetti), la segreteria non è usata come la classica stanza di compensazione del potere interno, la direzione diventa arena di combattimento tra le fazioni, la war room di Palazzo Chigi è il luogo della strategia (forse meglio dire tattica, per ora). Il renzismo è nuovo perché ha una diversa motorizzazione del partito, le sue decisioni passano a maggioranza, schiacciante, ma con un esercizio palese del voto e la rappresentazione plastica di chi vince e chi perde, soprattutto di chi decide.
Il Partito democratico nacque nell’ottobre del 2007 per fusione a freddo di due storie politiche profondamente diverse: il postcomunismo e il cattolicesimo democratico, i Ds e la Margherita si scambiarono l’anello senza trovare una forma e un meccanismo di funzionamento che fossero la vera sintesi delle idee e dell’azione politica. Non a caso, fu ancora Romano Prodi il collante a Palazzo Chigi di quel partito incompiuto. Durò poco, perché l’opera era in fieri. Renzi viene accusato di smontare quel partito, di dominarlo e non di governarlo. Ma la verità è un’altra: Renzi lo sta rifondando non sui gruppi dirigenti, ma sulla figura del leader che dialoga con il suo elettorato. E’ un percorso duro da accettare per chi creò il Pd sulla base di un (nobile) patto di nomenklatura, una via inedita che mette in conto delle perdite, ma è una strada contemporanea, pavimentata di democrazia diretta (le primarie) e verifica continua dei rapporti di forza interni (la direzione). Ancora una volta, sono le note di Gramsci sul Machiavelli a darci la lettura della rivoluzione in corso nel Pd quando cita il primo elemento fondamentale del partito: “Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo e altamente organizzativo. Senza di essi il partito non esisterebbe, è vero, ma è anche vero che il partito non esisterebbe neanche "solamente" con essi. Essi sono una forza in quanto c'è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente”. Piaccia o meno, questa forza oggi si chiama Matteo Renzi.