L'attacco del circo mediatico giudiziario alla discrezionalità delle scelte politiche
Roma. “Perché dal governo – si domanda un investigatore – continuano a dire che rifarebbero un emendamento che poi invece hanno abrogato?”. Così scriveva Repubblica, e in articoli decisamente simili anche Stampa e Corriere della Sera (“Perché si è scelto questo cambio di rotta? E, soprattutto, perché si continua a dire che la norma è tra le priorità del governo?”). E’ questa l’ultima frontiera del circo mediatico-giudiziario attorno all’impianto Tempa Rossa, che ha già portato alle dimissioni del ministro dello Sviluppo Federica Guidi: gli inquirenti, per interposti giornali, ora avanzano dubbi sull’operato politico del governo. Nello specifico, questionano su un emendamento sblocca-opere che nella legge di Stabilità 2015 c’era e che invece nella legge di Stabilità 2016 sarebbe scomparso. Facendo così balenare, nella fantasia del lettore mediamente a digiuno di emendamenti alla Finanziaria, il seguente scenario: sbloccato l’affare Tempa Rossa a favore di Total, la norma ad aziendam del 2015 non serviva più e quindi si è scelto di abrogarla nel 2016.
Le incongruenze qui sono due. La prima più fattuale: contrariamente a quanto poteva risultare da alcuni articoli di mercoledì, l’emendamento che parla di “strategicità” degli impianti accessori a quelli di estrazione degli idrocarburi (trasporto, stoccaggio, eccetera) è rimasto in vigore anche con la legge di Stabilità del 2016. L’unica modifica introdotta con l’ultima Finanziaria è quella che reinserisce un necessario parere delle regioni. In sostanza il governo, anche dopo l’ultima legge di Stabilità, ha continuato a rafforzare, estendendo il carattere di “strategicità” delle opere a impianti di idrocarburi e affini, un percorso di centralizzazione delle decisioni in materia di scelte energetiche già avviato dai governi Berlusconi e Monti.
La seconda incongruenza è perfino più importante. Se una lieve modifica allo sblocca-opere c’è stata, essa è stata decisa per ragioni politiche. Inutile agitare fantasmi: il comma 3-bis della Finanziaria 2015 – quello sulla possibilità di scavalcare i veti regionali, ripetiamo, non quello sulla “strategicità” di stabilimenti simil Tempa Rossa – è stato cassato dal governo per andare incontro a uno degli originari sei quesiti referendari dei No Triv. Una scelta legislativa originata da un ragionamento politico, e con una certa efficacia visto che ha disinnescato quella specifica richiesta referendaria. Di fronte a inquirenti che chiosano tale scelta, parrà meno ovvio ricordare una cosa: magistrati e polizia – vigente l’attuale Costituzione italiana e stante una versione pur basica della separazione dei poteri (cit. Montesquieu) – indagano sugli eventuali reati che si trovano a monte di scelte legislative, non sulle scelte legislative in sé, fossero anche cangianti. Su queste, l’ultima parola rimane quella degli elettori. Il giudice è indipendente – questo la magistratura italiana lo ricorda a ogni piè sospinto – e soggetto solo alle leggi della Repubblica. Ma la sua discrezionalità dovrebbe finire lì dove inizia la discrezionalità politica, cioè l’indipendenza del politico che fa e disfa le leggi.
Contraddire questo principio dello stato di diritto porta a ragionamenti simili a quelli del grillino Di Maio che martedì invocava le dimissioni del ministro Boschi con questa argomentazione: se il ministro firma gli emendamenti “per atto dovuto” – dove nessuna discrezionalità è richiesta – passi pure, ma se firma emendamenti che valuta e condivide nel merito (emendamenti che pure a sua insaputa siano frutto di alcuni reati commessi), allora è politicamente censurabile e si deve dimettere. E’ il côté grillino dell’assalto in corso alla discrezionalità politica in nome della “legalità”. Una situazione in cui diventa di per sé deplorabile – vedi alcuni intimoriti comunicati stampa di certi attuali ministri – la normale attività istituzionale che comporta incontri, come ce ne sono a migliaia ogni anno, tra uffici ministeriali e rappresentanti d’azienda. Il problema è che con la discrezionalità politica sotto scacco, politici ed elettori rischiano di finire in un angolo non per quello che fanno (a volte sbagliando) ma per quello che sono.