Essere Guido Bertolaso, le disavventure dell'ultimo Don Chisciotte del Cav.
"Lavorando con Silvio Berlusconi può succedere di tutto”, ha detto una volta uno dei suoi più antichi sostenitori e amici, il senatore Lucio Malan, in uno spiritoso, eppure serissimo libro sui mille incredibili primati del Cavalier Fantastico, che è poi il modo in cui Cervantes chiamava il suo Don Chisciotte: “Lavorando con Silvio Berlusconi può succedere di tutto”, scriveva dunque Malan, “si può diventare ricchi, diventare ministri o presidenti di regione, si può finire in galera da innocenti…”. E allora davvero viene da pensare, prestando l’orecchio alla commedia di queste elezioni amministrative romane in cui la destra si autoflagella spensieratamente, tra insulti, capriole, voltafaccia e infinite acrobazie, che da quando Guido Bertolaso ha incontrato Silvio Berlusconi, moltissimi anni fa, quando era cioè all’apice del successo, popolare come il Papa e il presidente della Repubblica, da quel momento fatale in poi, gli è successa qualsiasi cosa: fango, manette, intercettazioni, dimissioni, avvisi di garanzia, e adesso gli è capitato pure d’essere chiamato a candidarsi a Roma nelle condizioni più pazze del mondo e con il sospetto peraltro fondatissimo che il suo committente, il Cavalier Fantastico, dopo averlo invocato, adesso si sia improvvisamente pentito d’averlo coinvolto.
E proprio nessuno sa come andrà a finire questa storia della candidatura di Bertolaso al Campidoglio, tanto meno lo sanno loro, i protagonisti, gli attori sul proscenio della commedia, cioè Bertolaso e il Cavaliere, che si sorridono, si fanno coraggio l’un l’altro, ma con un velo d’incertezza e di ambiguità nello sguardo. E infatti il Cavaliere parla con l’ex capo della Protezione civile alla maniera di certi amanti annoiati, dissimulando cioè d’istinto i pensieri più segreti, rivelandoli suo malgrado con un’allusione o un sospiro, studiando l’altro con circospezione, facendolo incontrare con qualche emissario che gli si rivolga con maggiore franchezza. E raccontano che gli basterebbe ascoltare una sua mezza ammissione di sconforto sui sondaggi, gli sarebbe sufficiente cogliere sul volto del suo campione un’ombra malinconica di fronte all’arrembanza di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, per sciogliersi finalmente in un abbraccio liberatorio, e dirgli che sì, va bene caro Guido, se proprio insisti ritiriamo la tua candidatura. Ma queste sono parole che invece Bertolaso non pronuncia, non ci pensa proprio, perché forse gli bruciano in gola e gli serrano anche la mascella: è stato chiamato, è arrivato, si è candidato, ha iniziato la campagna elettorale, ci ha persino preso gusto, e adesso dovrebbe ritirarsi? E come lo si spiega? E che figura ci faccio? Ma Berlusconi non lo vuole scaricare, piuttosto, guidato dal suo sadismo imprevedibile, pretende che sia Bertolaso a scaricarsi da solo. Che vita d’inferno.
E dal 1997, per anni, Bertolaso è stato tutto, una vivente fatalità dell’italico destino. Francesco Rutelli lo chiamava a Roma per il Grande Giubileo, il più ordinato e quello di maggior successo che la città ricordi da molti anni a questa parte, e anche Prodi e Veltroni erano pazzi di lui, come i quotidiani e pure le televisioni, che ne lusingavano la facile vanità, “nella classifica della popolarità venivo subito dopo il presidente Napolitano e prima del Papa”, si lasciò scappare una volta. Bastava un allarme ed ecco che Bertolaso si trasformava nel direttore d’orchestra delle mille emergenze italiane, una mega sinfonia di 31.447 vigili del fuoco, 9.300 guardie forestali, 68.134 guardie di finanza, 120 mila carabinieri, 110 mila poliziotti, e poi gli aerei, i canadair, e gli elicotteri, i velivoli civili e quelli militari… E poi? E poi nel 2008 fu nominato sottosegretario del governo di Silvio Berlusconi, stringendosi al Cavaliere cui lui appariva l’incarnazione perfetta dell’uomo del fare, avvolto da quello stesso genere di grandioso e stordente cortocircuito che a Claudio Scajola, non un nome a caso, faceva dire: “Berlusconi è il sole… Se ti avvicini troppo ti bruci”. Ed è proprio nel 2008, e da questo abbraccio, che comincia a sgranarsi il rosario dei suoi tormenti e del suo decadimento: l’attenzione dei giudici, dunque le indagini sulla monnezza in Campania, poi l’Aquila, la Maddalena, le massaggiatrici e l’appartamento di via Giulia, le violenze cronistiche e le intercettazioni telefoniche, un collier di (dis)avventure che lo hanno portato a scomparire, malgrado le assoluzioni, ad allontanarsi e poi dimettersi, “ne sono uscito come ho deciso io: a testa alta e con le pezze al culo”. Fino a oggi, quando il Cavaliere lo ha recuperato, e lanciato ancora una volta, ma sul campo delle macerie romane, come una polpetta macinata tra le zampe di Salvini e di Giorgia Meloni, che tra richiami, imbonimenti, urla e incertezze lo hanno già divorato, lasciandogli solo la dignitosa eppure declinante bandiera di Forza Italia in mano. Quel vessillo consunto che pare adesso Berlusconi voglia togliergli, invitandolo, ma solo con gli occhi e con le mezze parole, a ritirarsi, chiedendo insomma (ma senza chiederlo) che questo medico e funzionario, lui che pure ha avuto la sua fierissima grandeur, compia per lui un ultimo harakiri, un suicidio rituale che a questo punto, dopo tante settimane, strepiti, pasticci e chiacchiere nel folto della destra esplosa, avrebbe anche una sua dionisiaca efferatezza. E allora il Cavalier Fantastico, giocoso e crudele com’è, avrà finalmente e definitivamente consumato Bertolaso, come le suole delle scarpe: risuolatura, rimonta, e abbandono.