Questioni concrete e poca ideologia dietro l'elezione di Davigo a capo dell'Anm
Il suo parlare fin troppo diretto è apparso ai più garanzia di un interesse più marcato per le questioni concrete della magistratura: dal riavvio dei concorsi per il personale ausiliario alla riforma delle circoscrizioni giudiziarie alla spinosa questione della riforma delle intercettazioni.
L’elezione di Pier Camillo Davigo a presidente dell’Anm non ha un tratto così ideologico come potrebbe apparire. Motivo l’affermazione con un flashback risalente a circa un mese fa. Come tutti sanno, le elezioni dell’Anm hanno fatto registrare un passo indietro di Area, la corrente di sinistra che riunisce Magistratura democratica e Movimenti, e di Magistratura indipendente: dall’una e dall’altra sono usciti i voti che hanno dato consistenza al nuovo raggruppamento interno alla magistratura, Autonomia e indipendenza, il cui leader, per l’appunto Davigo, ha conseguito una quantità di consensi tale (oltre mille voti) da condurlo al vertice dell’associazione – per lo meno nella fase iniziale, essendosi concordata una rotazione negli incarichi della Giunta.
Con questa dinamica, gli orientamenti ideali hanno poco a che fare: il decremento di Magistratura indipendente deriva dalla percezione di essa come filogovernativa e ha certamente inciso il fatto che Cosimo Ferri, esponente di rilievo del gruppo, sia da tre anni sottosegretario alla Giustizia di un esecutivo che ha adottato decisioni sgradite ai magistrati. Il decremento di Area deriva da una ragione analoga: il gruppo resta culturalmente egemone – soprattutto negli orientamenti della formazione interna – e vanta propri esponenti nelle posizioni più significative del pianeta giudiziario (non è un caso che proprio in Cassazione il gruppo non abbia perso voti), ma è apparso come non particolarmente battagliero su questioni che riguardano la vita quotidiana dei giudici italiani, dalla diminuzione delle ferie alla limatura degli stupendi. In un quadro complesso, un elemento che ha avuto peso nelle scelte elettorali dei togati è stata l’attenzione ai problemi più concreti: sarà pure corporativo, ma non è ideologico.
Questo riguarda soprattutto i più giovani, in un corpo che negli ultimi tre, quattro anni si è molto ringiovanito, grazie alle riforme su anzianità e pensionamento. Ed è un dato obiettivo che i giovani magistrati siano oggi molto sensibili alle questioni sindacali di chi aveva la loro età trent’anni fa. Oggi, una delle difficoltà maggiori negli uffici giudiziari è l’assenza di numerosi magistrati con qualifiche elevate: la riduzione da 75 a 70 dell’età della pensione – in sé sacrosanta – è stata realizzata in un tempo così breve da non aver reso possibile neanche un parziale ricambio. Non è una voce che scomoda i massimi sistemi, ma delle sue ricadute tutti attendono che ci si occupi presto e bene. Davigo è l’espressione della componente che assicura attenzione su questo versante, e che non a caso ha visto confermare i suoi consensi anche nelle elezioni celebrate il 3 e il 4 aprile: quelle per il rinnovo dei consigli giudiziari, una sorta di Csm in scala distretto di Corte di appello. Il suo parlare fin troppo diretto, al di là della condivisione o meno di ciò che dice, è apparso ai più garanzia di un interesse più marcato per le questioni concrete della magistratura.
Volendo sintetizzare – e con tante ulteriori precisazioni che sarebbero necessarie – il voto di un mese fa per i vertici nazionali dell’Anm e quello di una decina di giorni fa per i consigli giudiziari vanno nella direzione di chiedere all’Anm di essere più “sindacato” a tutela del corpo che partito autonomo. E’ prevedibile che l’agenda del confronto col governo riguarderà in misura maggiore gli aspetti di funzionalità del lavoro: dal riavvio dei concorsi per il personale ausiliario alla riforma delle circoscrizioni giudiziarie, rispetto alla quale il testo conclusivo dei lavori della Commissione presieduta da Michele Vietti esige un immediato confronto. Certo, poi esistono nodi in piedi da decenni, sui quali non è immaginabile che il nuovo presidente dell’Anm scelga di fare silenzio: in primis, la riforma delle intercettazioni. Ma qui il terreno potrebbe essere meno accidentato di quanto si immagini, se il governo decidesse di riprendere in mano la questione dopo la rinuncia del premier a riformare la materia, e se decidesse di cogliere i segnali emersi negli ultimi mesi. Che sulle intercettazioni, tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, i procuratori della Repubblica di alcune delle più importanti sedi giudiziarie abbiano adottato delle circolari, non è privo di significato; le circolari, come tutti sanno, sono indirizzate sia ai sostituti delle singole procure sia alla polizia giudiziaria da esse dipendenti, e pongono dei vincoli all’utilizzo delle conversazioni captate e alla loro pubblicità.
Se si è giunti a provvedimenti del genere, il problema non è un’invenzione di chi di volta in volta subisce l’intrusione: esiste, è grosso, e va affrontato. Uno strumento parziale come la circolare del capo dell’ufficio, ovviamente operativa solo nel circoscritto territorio della Procura che lo adotta, è sufficiente a limitare gli abusi da intercettazione? La domanda è evidentemente retorica. Come è retorico chiedersi se rassicurino garanzie a macchia di leopardo, dipendenti dalla professionalità e dall’iniziativa di chi opera sul territorio. Si ricorre allo strumento della circolare perché – al di là di quanto si dichiara nelle interviste o nei convegni – la legge è inadeguata. L’adozione delle circolari è dunque argomento solido a sostegno di una seria riforma della materia. Che, per garanzia di tutti, non può che provenire dal Parlamento. Dal Parlamento, non dal Governo, visto il rilievo, anche costituzionale, dei diritti in discussione.
Fino alla rinuncia di Renzi, l’esecutivo pareva voler modificare il regime delle intercettazioni con una stringata e generica delega a se stesso, contenuta in un più ampio disegno di legge in discussione. Per concludere: non è obbligatorio che dal nuovo vertice dell’Anm – da tutti riconosciuto forte e autorevole, anche qui al netto degli orientamenti e delle posizioni politiche – derivi una maggiore difficoltà di interlocuzione per il governo. A condizione che quest’ultimo affronti i nodi effettivi, e non parta da una prospettiva di scontro – coincidente quasi sempre con battute a effetto, sul quale dovrebbero prevalere la realtà e la gravità dei problemi sul terreno.