Adesso tutti dicono che il leader è Luigi Di Maio: "Mi sento come Superman"
Roma. Alla fine l’applauso di Alessandro Di Battista, che tutti chiamano Dibba ed è un impulsivo capace di sorrisi e d’improvvisi rabbuffi, d’umori e reazioni passionali, s’incrina in pianto, gli occhi gli si sciolgono in un collirio arrossato, tanto che persino lo slogan “onestà” “onestà”, l’ultimo saluto a Gianroberto Casaleggio, gli soffoca la gola e gli mozza il respiro, gli imporpora il naso, mentre i pantaloni neri, che hanno l’aria d’essere stati acquistati a peso all’Upim, gli scendono un po’ troppo lunghi e larghi sulla giacca e sulla cravatta listate a lutto. Le emozioni lo rendono trasparente, persino troppo. Ma ecco che accanto a lui c’è Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera, di quasi otto anni più giovane e venti centimetri più basso, si muove con un tono d’eleganza appena affettata che nel codice dei Cinque stelle viene definita “istituzionale”. E anche lui applaude, anche lui canta “onestà” “onestà”, come Di Battista e come Carla Ruocco, gli altri membri del direttorio Cinque stelle, solo che lui è una maschera asciutta, controllata, forse trattenuta: l’aria compresa di sé, il gesto attento, l’espressione misurata del cordoglio, composto in un abito blu tagliato su misura dal suo sarto di Pomigliano d’Arco, un vestito che la luce rende elettrico e in certe angolazioni iridato sopra i polsini candidi che sbucano con studiata proporzione dalle maniche. E davvero il contrasto, per ora soltanto di carattere e d’immagine, ma presto chissà forse anche di potere e d’influenza sul Movimento cinque stelle orfano di Casaleggio, non potrebbe essere più sgargiante, evidente, forse persino rivelatore. Da una parte Di Battista, dall’altra Di Maio, dunque.
Il caldo e il freddo, quello più aggressivo e fracassone, ma simpatico e quasi incapace di recitare, e poi invece lui, Di Maio, il preferito da Grillo (“Luigi è un Casaleggio senza i capelli”), da tempo amico anche dell’erede Davide Casaleggio, il “ragazzo prodigio”, il più giovane vicepresidente della Camera nella storia repubblicana, lui che sin dall’inizio della legislatura è apparso persino ai suoi colleghi – e ai molti che lo invidiano e lo fanno oggetto di malizie – quasi maniacalmente impegnato a dare “una certa immagine di sé”. Dunque “perfettino”, “primo della classe”, “arrivista”, ma pure abbastanza accorto, ambizioso, da aver coltivato, in questi tre anni, ampi e trasversali rapporti, persino con i giornalisti odiati, con i direttori e gli editorialisti (anche del Corriere della Sera), e poi con l’establishment delle banche, della grande burocrazia di stato, della diplomazia internazionale: persino Renzi gli mandava messaggini su WhatsApp. E allora dicono che sia Di Maio il prescelto, il volto del Movimento, da subito, e senza attendere quelle primarie web che a giugno lo vedranno forse contrapposto a Di Battista (salvo Dibba, lui che tende a sfuggire dalle responsabilità, non si ritiri). Il fronte referendario del “no” ha bisogno di un capo, non domani, ma oggi. “Per me lui è il nuovo leader”, ha detto Ferdinando Imposimato all’Huffington Post.
E Alessandro Di Battista, quando può, ogni volta che può, investe Di Maio della toga del leader, tende a consegnargli lo scettro, a farsi da parte: “Luigi è quello con il volto più istituzionale”, ha detto non molto tempo fa. E poi ancora: “E’ Luigi l’uomo giusto per convincere i moderati”. E quella che esprime Di Battista non è certo la virtù della modestia, non è amicizia fraterna – d’altra parte i due non litigano ma neppure si piacciono troppo – e non è nemmeno un tentativo di nascondere e minimizzare la competizione dentro il Movimento e all’interno del gruppo della Camera, dove Di Battista, incline al sorriso e disponibile alla battuta, è più popolare dello schivo e trattenuto Di Maio. Più banalmente, Di Battista, che ama la dimensione pubblica, la visibilità e le interviste non meno del suo misurato avversario, sa che comandare nel Movimento, litigioso e pieno d’insidie com’è, sempre sottoposto all’agghiacciante giudizio dei militanti, comporta tremende responsabilità e anche tutto un genere di pericoli, rischi privati e tagliole pubbliche che lui preferirebbe aggirare, evitare, come si taglia un angolo per strada: che se ne occupi Di Maio, se vuole.
E altroché, se vuole. L’anno scorso, al Festival del cinema di Giffoni, a Di Maio scappò di dire che “mi sento un po’ come Superman che sta capendo che poteri ha”. Issato nel 2013 da Casaleggio sul palcoscenico girevole della vicepresidenza della Camera, mentre gli altri Cinque stelle si assordavano tra insulti e richiami, scontrini e rendicontazioni, espulsioni e dissidenze, lacrime e delazioni, lui invece studiava ambizioso e silente i regolamenti parlamentari, si affidava persino a un “nemico”, a Roberto Giachetti del Pd, oggi candidato sindaco di Roma, per farsi spiegare codice e grammatica del Parlamento e dei rapporti politici. Scopriva dunque il gessato istituzionale e tutta la congerie dei riti consumati nelle fessure del potere, fino a costruirsi attorno una squadra di tecnici, di professionisti, di esperti di legislativo e di comunicazione, d’insegnanti di lingua e di dizione, d’ambasciatori presso i ministeri e l’establishment, di maratoneti dei corridoi di Palazzo: Salvatore Barca, sin da subito, distaccato dal ministero dello Sviluppo economico e messo a capo della sua segreteria, e poi Alessio Festa, funzionario della Camera, e poi ovviamente la sua fidanzata e sponsor Silvia Virgulti, fino ai rapporti con il mondo cattolico, con la chiesa, persino con Cl, attraverso Mattia Fantinati, e fino alla certosina costruzione d’una rete, quasi d’una corrente, nel Movimento: Giancarlo Cancelleri in Sicilia, Stefano Buffagni in Lombardia, Jacopo Berti in Veneto…
E insomma Di Maio è il Cinque stelle che non t’aspetti, è il leader designato dal destino e dagli eventi, quello rassicurante, apparentemente normale, quello che coltiva ambizioni classiche e relazioni di salotto, dunque comprensibili. E’ quello che non piange ai funerali di Casaleggio, come non esagera in Aula o in televisione, dove indossa la cravatta e s’abbottona la giacca. Sa che basta mettersi a strillare, come a volte fa il suo alter ego Di Battista, per assumere anche le sembianze scomposte di un urlo. Eppure talvolta si tradisce. Dietro la giacca cucita dal sarto rivela quegli stessi estremismi che disprezza negli altri. Il che tuttavia lo ha sempre reso fidato agli occhi di Casaleggio padre, e oggi anche di Casaleggio figlio. Di Maio candidato premier, dunque. Ma prima ci sono i referendum.