Boato: così funziona il traffico di influenze dei pm (con aneddoto)
Roma. Le lobbies, i presunti poteri oscuri, il reato (cosiddetto) di “traffico di influenze”, le telefonate inopportune, i “comportamenti discrezionali” dei poteri dello Stato, le intercettazioni che finiscono sui giornali (anche senza rilevanza penale) mentre il nuovo presidente dell’Anm Piercamillo Davigo dice di non voler riformare nulla in proposito (“non servono giri di vite”, è la sua tesi): tutti temi che rimandano al più grande problema di una riforma della giustizia in senso garantista ferma da vent’anni sulla via dell’approvazione, e non sempre per fato avverso o perché nel frattempo cadevano i governi. Come ricorda l’ex parlamentare radicale (poi verde) Marco Boato, garantista storico e relatore delle omonime “bozze” di riforma avanzate in seno alla “Bicamerale D’Alema” (1996-97), a volte il blocco delle proposte di riforma della giustizia è avvenuto per pressione diretta o indiretta (e mediatica) di settori della magistratura paladini dello status quo – e contrari, per esempio, alla separazione delle carriere.
Torna con la memoria, Boato, al 1992 – piena Tangentopoli – e ai lavori della Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali anche detta “De Mita-Iotti”. In particolare, torna ai giorni d’autunno in cui, dice, “ci fu la prima ufficiale e clamorosa interferenza di un gruppo di pubblici ministeri appartenenti all’Anm e in servizio a Milano e a Torino. Un’interferenza che in qualche modo riuscì a bloccare i lavori della Commissione in materia di giustizia”. Oggetto dell’interferenza, un capitoletto del documento formale di indirizzo per il successivo lavoro della Commissione, depositato il 18 novembre del ’92, specie l’ultimo capoverso (“… in tale prospettiva di riordino della magistratura la Commissione ritiene si debba anche modificare lo status del pubblico ministero differenziando tale organo dalla magistratura giudicante ma dotandolo nel contempo di garanzie di autonomia e indipendenza”). Un argomento “che è di attualità anche oggi”, dice Boato, “trattandosi di fatto di separazione delle carriere, soltanto in parte realizzata in seguito, dopo il fallimento della Bicamerale D’Alema, quando si è cercato, con la riforma dell’articolo 111 della Costituzione, di affrontare il tema del giusto processo”.
Ma nell’autunno del ’92 quelle quattro righe suscitarono “reazioni di una certa violenza”, racconta l’ex parlamentare: “Prima di tutto ci fu una copertina dell’Espresso, in cui si adombrava un fantomatico ‘colpo di Stato’ in Commissione, con ‘disegno’ piduista”. Il 3 dicembre, in una delle sedute (di cui esiste resoconto parlamentare), Boato “denuncia” pubblicamente il caso del settimanale che lanciava “l’allarme golpe”, rivelando, “come fosse un documento segreto, il testo dell’ordine del giorno in discussione, allegando documenti cosiddetti ‘della P2’ e tratteggiando l’eversione costituzionale”. Proprio quel giorno, racconta Boato, “arriva via fax in Commissione un documento, fotocopiato e distribuito dai funzionari, forse per ingenuità, come fosse un volantino, e intestato ‘Anm’, anche se non è propriamente dell’Anm. Il testo, infatti, è sottoscritto da decine di magistrati in servizio presso la Procura generale di Milano, la Procura della Repubblica di Milano, la Procura presso la Pretura di Milano, la Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minori di Milano, con numerose altre adesioni: da Vladimiro Zagrebelsky a dodici magistrati della Procura presso la Pretura di Torino”. In sostanza, dice Boato, con quel documento “si diffida la Commissione dal procedere nell’ipotesi di riforma costituzionale per quanto riguarda il rapporto tra magistratura inquirente e magistratura giudicante”. Già nella seduta successiva, le 4 righe vengono edulcorate: “… la Commissione ritiene che si debbano mantenere intatte le garanzie di autonomia e di indipendenza del pm nonché l’obbligatorietà dell’azione penale. In tale quadro dovrà essere approfondito il tema di una modifica dell’ufficio del pm differenziando tale organo dalla magistratura giudicante”.
Considerando il clima di quell’anno, e vista l’insolita scena dei funzionari che distribuiscono il volantino con “diffida”, Boato decide di denunciare pubblicamente la cosa e di farla mettere a verbale, ma, dice, “è un fatto che negli anni successivi il tema ‘riforma della magistratura’ si inabissa, per tornare sul tavolo della Bicamerale D’Alema, Commissione con poteri referenti, dopo la vittoria del centrosinistra alle elezioni del 1996”. Boato, che nella Bicamerale è relatore per la giustizia sul sistema delle garanzie, lavora alle famose “bozze”, poi approvate all’unanimità da centrosinistra e centrodestra e giunte infine in Aula. Nel gennaio del ’98, però, mentre si cominciava a discutere in Aula, e mentre da parte di Md giungono critiche durissime, l’Anm fa un convegno contro le riforme costituzionali (al Palazzaccio).
Partecipa l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. “Il magistrato Elena Paciotti”, racconta Boato, “fa una relazione violentissima contro riforma, Scalfaro interviene dicendo di ‘condividerla parola per parola’. Il giorno dopo, alla ripresa dei lavori in Aula, io replico dicendo che: ‘… di fronte a ricorrenti e pretestuose accuse rivolte al Parlamento di voler attentare all’autonomia e indipendenza della magistratura – accuse che non trovano riscontro alcuno nelle disposizione approvate dalla Bicamerale… vorrei riaffermare con pacatezza e nel contempo con forza anche l’autonomia e l’indipendenza e la libertà del Parlamento stesso che è diretta espressione della sovranità popolare e che solo da questa riceve la propria legittimazione costituzionale. Chiunque ha diritto di esprimere le proprie critiche e le proprie proposte nei confronti del Parlamento sia che si tratti di singoli cittadini sia che si tratti di associazioni di categoria sia che si tratti dei massimi vertici istituzionali, ma il Parlamento è e deve essere libero e autonomo”. Alla parola “autonomia”, ricorda Boato, “gli stenografi annotano… ‘applausi dei deputati di Forza Italia, di An e del deputato Massimo D’Alema’. Morale: Se l’Anm si mette contro, la riforma si arena, e, nonostante qualche coraggioso tentativo sul piano della legge ordinaria – mi riferisco al ministro Andrea Orlando, il tema resta a tutt’oggi una sorta di tabù sul piano costituzionale”.