Valide ragioni per dire "No" alla truffa del referendum
E' legittimo astenersi se non si condivide la domanda. Lo dice la Costituzione
La qualificazione giuridica dell’astensione nel referendum abrogativo è da tempo oggetto di discussione fra i cultori del diritto costituzionale. Essa può essere esaminata da due punti di vista: quello della “Costituzione dei diritti” e quello della “Costituzione dei poteri”. Il discorso è stato di solito sviluppato da questo secondo punto di vista. La previsione del quorum nel referendum abrogativo è stata interpretata come una deroga al dovere civico di votare: prevedendo che il referendum sia valido solo qualora partecipi al voto almeno la metà più uno degli aventi diritto, l’art. 75 ha aperto a chi sia contrario a un referendum la possibilità di operare nella campagna referendaria non solo per ottenere la prevalenza del No sul Sì, ma anche per ottenere, con il mancato raggiungimento del quorum, l’invalidità delle operazioni referendarie e dunque la permanenza in vigore della normativa di cui i promotori del referendum chiedono l’abrogazione. Del resto, il referendum abrogativo non è configurato nell’ordinamento italiano come la forma ordinaria della decisione democratica, ma come una procedura eventuale che alcune minoranze (500.000 elettori o cinque Consigli regionali) possono attivare. Ma a queste minoranze la regola del quorum impone un doppio onere: quello di convincere gli elettori a partecipare (persuadendoli cioè che i promotori hanno posto una questione degna di chiamare al voto tutto il corpo elettorale) e quella di persuaderli a votare Sì, ove condividano l’obiettivo del referendum. Pertanto, chi non condivida non solo la risposta, ma neppure la domanda (l’iniziativa referendaria in sé) può utilizzare la strategia dell’astensione. A questo argomento tradizionale in favore dell’astensione, se ne può forse aggiungere un secondo, collocato nella prospettiva della “Costituzione dei diritti”, partendo da due libertà fondamentali, quella di manifestare il proprio pensiero (il voto è in fondo un “pensiero”), e quella di votare. Ogni libertà include infatti un «versante negativo»: in questo caso il diritto a non manifestare il proprio pensiero e a non votare. Tuttavia la qualificazione del voto come dovere civico (art. 48) impedisce di attribuire alla libertà di non votare una portata generale: il dovere civico di votare si spiega in quanto le elezioni, in una democrazia rappresentativa come l’Italia, non possono fare difetto, perché in tal caso non potrebbero formarsi democraticamente gli organi elettivi (Parlamento in primis) che sono indefettibili. Ma allora il dovere civico di votare “prevale” sul diritto a non votare solo a fronte di un interesse pubblico primario – quello alla funzionalità degli organi elettivi – che giustifica la limitazione di tale diritto (e, indirettamente, della libertà di espressione). Tuttavia nulla di tutto ciò vale per il referendum: qui, come si è visto, è la stessa Costituzione a prevedere la nullità della consultazione in caso di mancanza del quorum. Non esiste dunque un dovere civico di votare nel referendum ma, piuttosto, un diritto fondamentale ad astenersi: al cittadino è riconosciuta non solo la scelta sul come votare, ma anche quella sul se votare.
Olivetti Marco è Professore di Diritto costituzionale presso l'Università Lumsa