Trivelle: lo scontro di potere tra stato e regioni
Roma. La vicenda Tempa Rossa, le indagini della procura di Potenza, le dimissioni del ministro Federica Guidi, le intercettazioni e il petrolio sono la chiave del referendum No Triv. Non nel senso indicato dai referendari, con la retorica del mare pulito e della lobby sporca dei petrolieri; da questo punto di vista il quesito sulla durata delle concessioni per i giacimenti entro le 12 miglia non c’entra proprio nulla. Il vero punto del contendere, il non detto di questa campagna referendaria, è lo scontro di potere (soprattutto economico) tra stato e regioni. L’attrito tra i due livelli istituzionali è di per sé evidente dal fatto che si tratta del primo referendum da molto tempo a questa parte che sia stato chiesto dai Consigli regionali (dieci inizialmente) e non da una raccolta firme di semplici cittadini.
Ma l’inchiesta lucana che ha portato alle dimissioni della Guidi, con il suo strascico di polemiche, ha reso palese questo scontro istituzionale: al presidente del Consiglio Matteo Renzi, che ha rivendicato “con forza” l’emendamento incriminato per sbloccare l’investimento di Tempa Rossa, ha risposto infatti il presidente della Puglia Michele Emiliano: “Tempa Rossa è importante per i petrolieri concessionari. Lo stato e la Basilicata prendono soldi che non cambiano le condizioni di vita degli italiani. Per la Puglia è irrilevante”. In pratica per quest’opera, che il governo ritiene di interesse nazionale, è necessario che il petrolio estratto venga trasferito attraverso un oleodotto alla raffineria Eni di Taranto, ma la Puglia ha voce in capitolo e non riceverà royalties: “Così non va. Queste decisioni vanno prese insieme”, dice Emiliano. “Ribadiamo il nostro ‘no’ alle trivellazioni in mare e al progetto Tempa Rossa, in quanto rischiosi per l’ambiente”, è scritto nel documento programmatico della regione Puglia.
Manifestazione del M5s a Montecitorio sullo scandalo delle trivelle (foto LaPresse)
In pratica, un po’ come Jep Gambardella, Emiliano non vuole solo partecipare alle grandi opere, vuole anche avere il potere di farle fallire. Più che la scelta tra “energia sporca” ed “energia pulita”, che è solo la superficie dello scontro politico, la contrapposizione è sul potere di decisione e interdizione a proposito di un tema importante come la politica energetica che, probabilmente, anche per le sue implicazioni internazionali andrebbe discussa ai massimi livelli istituzionali. Ma si tratta solo di un aspetto dello scontro tra stato e regioni, che va avanti sottotraccia da anni dopo la riforma del Titolo V della Costituzione che ha creato molto attrito sulle competenze che spettano ai vari livelli istituzionali. Un esempio, sempre di questi giorni, è la richiesta di sottrarre le partecipate regionali dai radar della Corte dei Conti: bisogna “precisare la natura del controllo della Corte dei conti sugli atti deliberativi di costituzione o acquisto di partecipazioni societarie” ed “escludere le società operanti in regime in house”, osservano le regioni in merito al decreto Madia sulle partecipate, in ossequio a un malinteso federalismo secondo cui l’autonomia esiste solo sul fronte della spesa, fino a quando lo stato centrale non viene a ripianare i debiti.
Quanto possa essere fastidioso il controllo della Corte dei Conti lo si capisce, tanto per restare al settore energetico, dalla recente indagine della magistratura contabile “sull’utilizzo delle risorse generate dall’estrazione petrolifera” in Basilicata. Il Texas d’Italia negli ultimi 15 anni ha incassato circa 2 miliardi di euro di royalties che regione e comuni hanno utilizzato senza programmazione, per la gran parte sperperati in spesa corrente, il carburante del consenso, piuttosto che investiti in efficaci progetti per lo sviluppo.