Il referendum “No Sense”
Che fine hanno fatto i presidenti No Triv? E' rimasto solo Emiliano
Roma. Quello di domani è un referendum storico. Non solo perché uno dei pochi, nella vita della Repubblica, a essere stato convocato su impulso delle regioni, invece che dopo una raccolta firme. In una campagna referendaria già di per sé surreale, che si chiama “No Triv” senza che ci siano trivellazioni in vista, e in cui si parla di mare, cozze e qualsiasi faccenda tranne che del quesito e delle sue conseguenze, l’altra cosa strana è che non ci sia stato un solo comizio o un evento con tutti i promotori sullo stesso palco. Non esiste una foto con tutti i nove-dieci presidenti di regione che hanno voluto il referendum. L’unica istantanea che si avvicina a qualcosa del genere è quella scattata al Vinitaly, che vede insieme il leader dei No Triv Michele Emiliano, presidente della regione Puglia, e il leghista Luca Zaia, presidente del Veneto, con in mano due bottiglie di vino e due cavatappi infilati nel sughero: “Queste sono le uniche trivelle che vogliamo!”. Per il resto, a parte Emiliano che combatte una sua personale battaglia politica nel partito e i due governatori di centrodestra, Zaia e il ligure Giovanni Toti, gli altri presidenti di regione si sono tutti, chi più chi meno, defilati.
Il primo è stato l’abruzzese Luciano D’Alfonso, che diversi mesi fa ha ritirato la sua regione: “Riteniamo che sia cessata la materia del contendere – ha dichiarato – Le tipografie referendarie indietreggiano e avanzano nuove soluzioni normative, la lotta politica prenda altre strade se vuole essere solo lotta di testimonianza”. Chi è rimasto sul sì, ma in maniera piuttosto tiepida, sono il marchigiano Luca Ceriscioli (“E’ un tema residuo. Quest’ultimo elemento chiuderà la partita, ma il grosso mi sembra già definito”) e il presidente della Calabria Mario Oliverio, che solo pochi giorni fa hanno annunciato di votare “sì” dopo le accuse di non essersi impegnati abbastanza.
Altri due governatori del fronte referendario all’ultimo minuto hanno cambiato idea, decidendo di andare a votare ma per il “no”. Sono Francesco Pigliaru della Sardegna e Paolo Di Laura Frattura del Molise: “Non è in discussione l’apertura di nuovi impianti, ma solo se questi pochi possono produrre fino a esaurimento dei giacimenti. Andrò a votare e voterò no”, ha detto il sardo. Mentre il molisano dichiara: “Voto no, perché così interveniamo sulla situazione esistente e su un’iniziativa nata per esaurire il giacimento”. Ci sono poi quelli che non si sa bene cosa faranno, ma bocciano la consultazione. Il campano Vincenzo De Luca intervenendo nell’ultima concitata direzione del Pd ha detto che il referendum è “assolutamente inutile”: “L’iniziativa si è sovraccaricata di ideologismi, questo referendum non ha più nessun significato”. Mentre il lucano Marcello Pittella andrà a votare ma non dice come, avendo però le idee chiare sulla deriva della campagna referendaria. In un’intervista al Foglio Pittella ha definito “demagogo da strapazzo” il suo collega e compagno di partito Michele Emiliano: “Non ci sono nuove concessioni, chi si alza e dice ‘No alle trivelle!’ dice una cazzata. Contesto fermamente l’atteggiamento populista e demagogico di Emiliano”. C’è poi il caso del toscano Enrico Rossi, che senza avere “trivelle” e senza essere stato tra i promotori dei sei quesiti iniziali, è diventato all’ultimo minuto sostenitore dell’unico quesito avanzato. A lui fanno da contraltare Stefano Bonaccini dell’Emilia Romagna e il siciliano Rosario Crocetta, da sempre contrari al referendum, che governano le regioni maggiormente interessate dall’estrazione e che pagherebbero le conseguenze di una vittoria del sì. E’ davvero un referendum storico, il primo richiesto dalle regioni e il primo a non essere sostenuto da tutti i suoi promotori: No Triv e No Sense.