Il filo possibile di un centrodestra tafazziano
Guardi Roma, guardi Milano, guardi il referendum sulle trivelle, guardi il referendum costituzionale, guardi il Renato Brunetta all’attacco dei petrolieri, il Paolo Romani in difesa dei petrolieri, il Cav. che non vota, Salvini che attacca, Meloni che mena, e dici, boh, scusate, non si capisce niente, e allora ti chiedi se dietro la follia, dietro l’allegra schizofrenia politica del centrodestra, sia possibile individuare un filo, una strategia, una speranza per il futuro.
Nello sconforto più generale, allora, bisogna provare a decrittare il percorso del centrodestra prendendo da un lato Milano e dall’altro Roma, ovvero le due città che in questo momento offrono il volto più contraddittorio rispetto ai destini del centrodestra. Milano e Roma. A Milano, attorno a Stefano Parisi, il centrodestra marcia compatto, solido e aggregando tutti, da Salvini a Passera, e il modello Milano non può che essere il modello del futuro, a prescindere poi da quale sarà il risultato contro Beppe Sala. A Roma, invece, anche se è difficile immaginare che le cose andranno così ancora a lungo, i quattro candidati del centrodestra in campo per il dopo Marino (Bertolaso, Marchini, Meloni, Storace) sono la fotografia di tutti i limiti di una non coalizione – e per molti aspetti la divisione in quattro del centrodestra romano è più simile allo stato del centrodestra nazionale di quanto non lo sia quello milanese.
Si dirà, allora, ma che senso può avere una coalizione, a Roma, così divisa e frastagliata? Può avere solo un senso: Milano è il futuro, l’unione che fa la forza per provare a battere Renzi, ma in mancanza di primarie, nel centrodestra, Roma può diventare un termometro utile per misurare chi peserà più degli altri nel centrodestra del futuro. Trattasi di schizofrenia, certo, così come sarebbe da schizofrenici votare a ottobre contro la stessa riforma della Costituzione che da vent’anni chiede il centrodestra, ma un filo c’è, nel delirio, e quel filo bisogna seguirlo, almeno fino a quando a Roma i candidati resteranno quelli che sono. Già, ma fino a quando?