Il premier Matteo Renzi (foto LaPresse)

L'altro referendum. Le scissioni pd spiegate con l'addio alla questione morale

Claudio Cerasa
Ci sono due sinistre dentro la stessa sinistra. Due sinistre che si scannano su quasi tutto ma la cui scissione sentimentale passa prima di tutto da qui. Dalla fine di un’epoca. Dalla fine, forse definitiva, della questione morale.

Per sua specifica natura, di solito l’anti è insieme reduce da glorie passate, immaginarie il più delle volte, e in transumanza verso altri orizzonti non meno luminosi. Panato di buone intenzioni e spesso satollo di stratosferico egocentrismo, procede. Di più: marcia. Politicamente: crede sempre di avanzare (avendo, a propria specifica vocazione, la costante sua presenza su “un terreno più avanzato di lotta”). Orizzonti, va da sé, di gloria – che di gloria, si capisce, prima o poi pure lui rivestiranno. E’ in moto perenne, l’anti italico. Fosse un film, sarebbe “Cavalca vaquero!” (1953). Perché l’anti, pure questo si sa, è per sua natura scomodo e pericoloso. Per il Sistema tutto, che tutto all’erta sta, a contrastare il peso gravoso della sua opposizione. Infatti, tipico dell’anti è la lamentazione: hanno paura di quello che dico, eh? non mi fanno parlare per paura, eh? – crede il poveretto in buona fede che il mondo lo tema, il mondo che soltanto lo ignora; non fosse disdoro per la grandissima poetessa, si potrebbe dire che è nella stessa condizione della Dickinson, “questa è la mia lettera al mondo, che non ha mai scritto a me”. Scomodo, pericoloso e purtroppo largamente incompreso (la voce di mammà che risuona nelle orecchie: dai una sistemata alla cameretta!, fatti una lavatrice!, trovati un lavoro!), perciò è per sua natura errante: come il pastore leopardiano, come il cavaliere medievale, come la fantasia foscoliana, come il Buddha col sacco di riso (mutato in smartphone, però: errante ma connesso) appresso. Va, lui va – tirandosi dietro un’approssimativa comprensione del mondo, e una totale favolistica convinzione di averlo benissimo compreso. E passa da un antagonismo all’altro, da una lotta alla successiva, da un nemico a quello che viene dopo. E siccome la generale varietà potrebbe mettere a repentaglio la fragile coerenza, l’anti ha ben chiaro nella sua testa (lì solo: ma la sua testa, per quanto fornita a volte di disponibili meningi, gli basta e gli avanza) il legame profondo tra Sistema e Potere (intesi S&P) che ogni lotta sua mira a scardinare, in una complessione tale al cui confronto un romanzo di Umberto Eco – l’anti ha spesso una sorta di suo personale “Pendolo di Foucault” incorporato – o la teoria katafisica di Dionigi l’Areopagita hanno la linearità e la semplicità di “Quarantaquattro gatti” e “La Peppina fa il caffè”.
Stefano Di Michele, Il Foglio, 21 maggio 2015.

 

A prescindere dall’esito del referendum sulle trivelle – i cui comitati, soprattutto quelli del sì triv, probabilmente avrebbero fatto sorridere di gusto il nostro Stefano Di Michele – c’è un dato importante che riguarda quella che forse è oggi la trasformazione più importante che colpisce il cuore del pensiero progressista italiano, e di quel mondo che chissà quante volte avrete letto descritto in modo unico dal nostro SDM. E’ una trasformazione, o meglio, una divisione dei campi, che spiega bene la natura della scissione sentimentale del Partito democratico e che tocca contemporaneamente l’ideologia moralista no triv, le tesi conservatrici sul referendum costituzionale, il percorso legato alle elezioni amministrative e l’oggettiva mutazione genetica di un giornale come Repubblica, che da quarant’anni detta l’agenda alla classe dirigente della sinistra italiana. Al centro di questa trasformazione, di questa nuova divisione dei campi, c’è un fenomeno cruciale che, a sinistra, segna la vera rottura tra una sinistra che spaccia ancora per riformismo la questione morale (la sinistra dell’Anti) e una sinistra che dopo essere intossicata per anni con dosi letali di questione morale oggi sta semplicemente cercando di smettere e sta provando a ristabilire un nuovo equilibrio (la sinistra Anti Anti). La differenza tra le due sinistre oggi è tutta qui e non è un caso che la sinistra della questione morale – quella che soffia sulle inchieste dei magistrati per mobilitare le masse, andando volontariamente o involontariamente al traino del partito dell’onestà-tà-tà – sia una sinistra che non riesce ad accettare la nuova egemonia a trazione renziana-napolitaniana. E da questo punto di vista, in ballo, oggi, sia al referendum no triv, sia al referendum costituzionale, sia in alcuni passaggi delle prossime amministrative, c’è un giudizio, forse definitivo, su uno dei grandi temi che ha segnato l’identità del mondo progressista, in Italia e non solo.

 

Rinfreschiamoci la memoria. Il 28 luglio del 1981, in una famosa intervista concessa a Eugenio Scalfari su Repubblica, Enrico Berlinguer, segretario del Pci, issò sul galeone del suo partito la bandiera della questione morale, “diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico”.

 

Fu dopo quell’intervista che, quell’espressione, venne riconosciuta come il centro nevralgico del nuovo mondo comunista, e fu quella la scintilla che permise alla sinistra di considerare a tutti gli effetti i magistrati come i migliori alleati possibili per portare avanti la pulizia e la moralizzazione del paese. Il rispetto della pubblica morale, da quel giorno in particolare, diventò il criterio principale con cui valutare i soggetti della politica. E nel corso del tempo, come è noto, aumentò la tendenza della sinistra a voler risolvere per via giudiziaria la complessità dei problemi della politica – un tratto culturale ereditato, alla grande, dal Movimento 5 stelle (onestà, onestà, onestà).

 

Oggi, la nuova sinistra, vedremo che fine farà, ha scelto, per la prima volta in modo chiaro e definitivo, di mollare per sempre il berlinguerismo (meglio il riformismo che il moralismo) e di superare, finalmente, la sindrome della questione morale (quello che dice un giudice non è il Vangelo). Non stupisce che sia Renzi, da sempre estraneo al paradigma Palasharp, ad aver fatto sua questa dottrina. Non stupisce neppure che sia Napolitano ad aver contribuito a trascinare, a forza di calci nel sedere, la sinistra lontana dalla terra del moralismo (all’epoca di Berlinguer, raccontano le cronache di quei giorni, solo un importante esponente del Pci trovò la forza di criticare l’imposizione del moralismo come principale rotta da far seguire al galeone della sinistra e quell’esponente del Pci, che ammonì il suo partito di non usare la questione morale per affermare una propria superiorità antropologica nei confronti dell’avversario, chiedendo di non prestare il fianco ad “atteggiamenti di pura denuncia, stati d’animo pessimistici e finanche forme di smarrimento” perché il vero compito dei partiti di sinistra doveva essere quello di “non limitarsi alla critica e alla propaganda”, era, naturalmente, Giorgio Napolitano). Stupisce invece che nella nuova geografia del progressismo italiano sia il giornale che in qualche modo inventò con Berlinguer la questione morale ad aver cominciato, quarant’anni dopo la sua fondazione, a seguire una rotta diversa. La Repubblica di Eugenio Scalfari (intervistatore di Berlinguer) e quella di Ezio Mauro (definita dallo stesso nuovo direttore, con un sorriso, quasi una teocrazia) avevano fatto della questione morale – onestà, onestà, onestà – il cuore della propria linea editoriale, trasformando ogni piccolo scandalo in una nuova fase della nostra vita politica e creando anche le basi per una forma di proto-grillismo. In nome di questo principio diventa tutto un –opoli. Tutto un Tangentopoli, un Calciopoli, un Criccopoli, un Trivellopoli. Tutto uno scandalo. Tutta una vergogna. E dunque: Onestà-onestà-onestà. Il nuovo direttore, Mario Calabresi, ha scelto, come ha fatto Renzi con il Pd, di nascondere sotto un tappeto il berlinguerismo, decidendo di non moraleggiare troppo sui Panama leaks (sorpresa), di non trasformare le inchieste dei magistrati di Potenza in una pagina di un Vangelo (doppia sorpresa), di non riempire di post-it gialli con su scritto “bavaglio” le pagine dedicate alla riforma delle intercettazioni (tripla sorpresa).

 

E’ una nuova sinistra, quella rappresentata da Repubblica, meno teocratica e più al passo con l’epoca renziana-napolitaniana, non in tutto naturalmente, in qualcosa, ma questo passaggio è comunque un segno dei tempi che ci dice bene quale sia la traccia da seguire per capire il cuore della sfida tra le due sinistre d’Italia. Ci sono due sinistre dentro la stessa sinistra. Due sinistre che si scannano su quasi tutto ma la cui scissione sentimentale passa prima di tutto da qui. Dalla fine di un’epoca. Dalla fine, forse definitiva, della questione morale e della sinistra degli opoli che spaccia moralismo per riformismo. E una sinistra che, vedremo fino a quando, ha capito i limiti di un mondo, quell’anti, schiavo per anni della questione morale, che a guardarlo oggi, per sua specifica natura, si presenta come “un insieme reduce da glorie passate, immaginarie il più delle volte, e in transumanza verso altri orizzonti non meno luminosi”, e panato di buone intenzioni e spesso satollo di stratosferico egocentrismo, procede reduce da glorie passate, immaginarie il più delle volte, e in transumanza verso altri orizzonti non meno luminosi”. Ciao Stefano, ci mancherai.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.