Migranti al confine tra Austria e Germania (foto LaPresse)

Per gestire i migranti servono misure di portata nazionale, non il migration compact

Alfredo Mantovano
Immaginiamo che, invece del prevedibile flop, lunedì scorso il Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Ue avesse accolto la proposta del Governo italiano del c.d. migration compact, con la Germania pronta a concordare perfino le modalità di finanziamento.

Immaginiamo che, invece del prevedibile flop, lunedì scorso il Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Ue avesse accolto la proposta del Governo italiano del c.d. migration compact, con la Germania pronta a concordare perfino le modalità di finanziamento. Immaginiamo che dal giorno successivo le istituzioni europee e dei singoli stati avessero iniziato a realizzarlo nel concreto. Proviamo a scendere nel dettaglio, passando in rassegna i partner africani possibili destinatari degli aiuti per opere socialmente utili – da finanziare con eurobond – destinate dal piano a frenare le partenze dai rispettivi territori. Cominciamo con l’Eritrea: da oltre vent’anni sottoposta a regime totalitario, la cui repressione è la causa principale delle fughe in direzione dell’Europa. Come funziona? si trasferiscono gli eurobond direttamente sul conto corrente del presidente a vita Afewerki? o si manda una missione europea – che sarebbe accolta verosimilmente a braccia aperte – per controllare la corretta destinazione degli aiuti? Proseguiamo con la Nigeria: non comparabile con l’Eritrea, ma con interi territori sottratti al controllo del proprio governo e occupati da Boko Haram; il migration compact verrebbe adoperato per convincere la comunità di un villaggio in prevalenza cristiano ad abbellire le proprie case, o per indurre i capi di Boko Haram a fare i bravi e a non costringere alla fuga chi non accetta la sharia? Che dire della Somalia, o del Mali, o dei tanti territori dai quali chi decide di andarsene lo fa perché altrimenti viene ucciso o – se donna – sottoposta a violenze e schiavizzata?

 

Certo, dalla Nigeria prendono il largo anche non pochi migranti economici. Ma è proprio questo il punto: non si può pensare di affrontare un esodo così massiccio da vari pezzi di Africa mettendo tutto sullo stesso piano, e peraltro – le dichiarazioni del premier italiano vanno in tale direzione – presentando il migration compact come una sorta di adattamento a quel che passa dal Mediterraneo dell’accordo raggiunto con la Turchia. Quest’ultimo è già un fallimento perché – in una struttura di rapporti fra Ankara e Bruxelles che fra privati verrebbe sanzionata perché estorsiva – ignora i fondamenti dell’asilo e della protezione umanitaria e si traduce nell’appalto dell’intera Ue a Erdogan perché chiuda le frontiere verso gli stati europei. La Turchia non ha propri cittadini che scappano, a differenza di quel che accade dagli stati africani; ha accolto al proprio interno nel corso degli anni oltre due milioni di siriani, più aliquote inferiori provenienti dall’est, dal Pakistan all’Afghanistan. Usa questa consistente quantità di persone senza casa come minaccia da far dilagare in Europa se quest’ultima non corrisponde ad Ankara denaro e vantaggi politici. I 28 dell’Ue, andati in tilt nell’estate 2015 perché la Turchia aveva permesso che un decimo dei migranti presenti sul proprio territorio si trasferissero nei territori dell’Unione, accettano di corrispondere un ticket così pesante pur di non affrontare il problema. Che cosa c’è in comune con le dinamiche intrafricane?

 


Riunione dei Ministri degli Esteri dei sei Paesi fondatori dell'Unione Europea dello scorso febbraio (foto LaPresse)


 

Siamo sereni: tutto quel che si è detto finora non conta nulla. I 28 ministri degli Esteri dell’Unione, more solito, hanno deciso di non decidere, e quindi il migration compact è finito prima ancora di cominciare. Nel frattempo, strette le maglie della via turca, bloccati in Grecia – fra Lesbo e Idomeni, con tutto quel che c’è di mezzo – con lacrimogeni e proiettili di gomma coloro che l’Europa rifiuta e che la Turchia non riprende con sé, l’Italia si candida per il 2016 a far registrare quantità di ingressi superiori agli anni precedenti: senza che si capisca come verranno gestiti, soprattutto se stati vicini – Austria in testa – ne precludono il passaggio dal proprio territorio. Fra tutti gli stati europei, l’Italia finora si è spesa di più nell’accoglienza e nella dimostrazione di tolleranza; ma la confidenza sul fatto che tutto sommato i problemi incontrati negli ultimi anni si sono risolti potrebbe riservare per il futuro qualche sorpresa non gradevole. La risposta alla latitanza delle istituzioni europee – lamentata da mesi, ma senza frutto, dagli esponenti più significativi del nostro Governo – non può essere la formulazione di proposte irrealizzabili, o comunque di lontana ricaduta. Si può intensificare quel che già si fa, con dei mutamenti di passo sul piano della qualità e della quantità degli interventi. Cominciando da questioni-chiave: asilo, espulsioni, hotspot.

 

Asilo. E’ un dato oggettivo che, rispetto a pochi anni fa, è cresciuta la percentuale di persone che, giungendo sul territorio italiano, hanno titolo a ottenere lo status di rifugiati, o almeno la protezione umanitaria. Quando – nel 2010 – le persone sbarcate in un anno erano poco meno di 4.500, le commissioni cui era demandato l’esame della richiesta di asilo erano 20; nel 2016 capita che 4.500 persone arrivino in un solo giorno: le commissioni sono state portate a 47, ma il carico di lavoro non è 2 bensì 40 volte quello di 5 anni or sono. Non auspico una soluzione alla greco/turca: un solo funzionario che fa interviste veloci e superficiali, quasi tutte destinate a concludersi col rigetto; quel che sta accadendo sul territorio ellenico in coerenza con l’accordo Ue-Turchia è semplicemente indegno. In Italia vanno moltiplicate le commissioni; mantenerne un numero così inadeguato rispetto alle domande equivale ad allungare di molto – come è accaduto e accade – i tempi del riconoscimento o del disconoscimento dell’asilo. Costituire altre commissioni costa? Costa molto di più mantenere per un anno invece che per un mese un richiedente asilo e la sua famiglia. Senza contare che chi arriva da esperienze tragiche non ha tanta pazienza e rischia con tempi lunghi di risposta – soprattutto se di giovane età – di diventare preda di circuiti criminali, quando non terroristici. Non sto dicendo che coi gommoni in Italia giungono i terroristi; sostengo che se si lascia un ventenne eritreo, che giunge dopo un viaggio durata due anni, nell’incertezza per un altro anno sulla propria sorte, l’attesa è in sé rischiosa e potenzialmente eversiva.

 

Sempre nella prospettiva dell’abbattimento dei tempi, chi vieta di istituire corsie preferenziali di entrata e di rigetto? Se il richiedente asilo è un medico di Aleppo che si presenta con quel che resta della propria famiglia, col certificato di battesimo e magari con le foto della propria casa distrutta dalle bombe – capita con frequenza – che necessità c’è di una istruttoria approfondita? E’ così difficile prevedere un esame rapido e un esito positivo? Al contrario, se il richiedente asilo è un giovane marocchino che, proprio perché tale, non ha alle spalle alcuna guerra, perché farlo aspettare mesi e mesi prima di dichiarargli subito inammissibile la domanda? Identificare aree di provenienza di certa persecuzione, soprattutto verso taluni gruppi etnici o confessionali, e nel contempo stilare – in Italia incredibilmente manca – l’elenco dei “paesi sicuri” velocizzerebbe l’esame delle richieste. E’ veramente singolare che oggi Atene consideri Ankara territorio sicuro, al punto da restituirle perfino turchi di etnia curda, e Roma non consideri sicura Rabat, al punto che ogni marocchino che arriva trova inizialmente la medesima considerazione di un iracheno fuggito da Mosul. E’ altrettanto singolare che il ministro della Giustizia si ponga – e fa bene – il problema di abbattere i tempi dei ricorsi giurisdizionali contro le domande di protezione respinte, e analogo abbattimento non sia in agenda davanti al primo gradino dell’iter, quello delle commissioni.

 

Per adottare queste banali misure non è necessario il consenso di Bruxelles: rientra nell’area di competenza di un governo nazionale.

 

Espulsioni. Si può essere credibili nell’accoglimento delle richieste di protezione umanitaria, senza tetti numerici, ogni qual volta ve ne sono i presupposti, si si è efficaci nell’espulsione di chi non ha titolo all’asilo o non ha neanche presentato la domanda. Sarebbe interessante conoscere un dato che non compare mai nei report mediatici, e neanche in quelli ufficiali: quello relativo alle espulsioni effettivamente realizzate nei confronti di chi entra in modo irregolare. Attenzione: il dato da conoscere non è quello dei provvedimenti di espulsione formalmente disposti, bensì quello dei riaccompagnamenti realmente andati a compimento. L’atteggiamento di crescente ostilità verso chi arriva da fuori i confini europei dipende dalla quantità notevole – centinaia di migliaia di persone – che vagano da noi o in condizioni di sfruttamento, anzitutto lavorativo, proprio perché irregolari, ovvero oltre i margini della legge, dediti a reati per i quali quasi nessuno viene punito.

 

Hotspot. E’ vero, sono stati istituiti. Funzionano nei confronti di tutti coloro che mettono piede in Italia? Qualcuno può dire senza timore di smentita che ogni migrante che, per qualsiasi motivo, arriva da noi viene identificato, se ne raccolgono i rilievi fotodattiloscopici, e si prova a capire chi è? La minaccia di costruire una barriera al Brennero non è gradevole; viene da uno stato che non conosce neanche da lontano il peso dell’attuale pressione migratoria sull’Italia, mentre ha dimenticato il tratto generoso col quale aprì le case dei propri abitanti ai profughi ungheresi nel 1956. E tuttavia, quanti migranti irregolari finora hanno attraversato il passo al centro del Tirolo senza che se conoscesse l’identità? La furbizia ha sempre il respiro corto, e non è utile a contrastare la scarsa sensibilità dello stato vicino. Accade oggi con l’Austria; è successo in passato con la Francia.
 Governare il fenomeno con misure di portata nazionale non risolve tutti i problemi. Ma permette intanto di circoscriverne una parte. E permette di presentarsi ai partner europei con le carte in regola e con la piena legittimazione a chiedere non la fantasiosa e inutile migration compact, bensì misure di immediata ricaduta: la revisione di Dublino, per esempio. Non sarebbe poco.

Di più su questi argomenti: