Riflessioni a margine del nuovo e post ideologico brand renziano: #ciaone
Per comprendere l’attitudine alla naturale simpatia di molti ragazzi del circolo renziano non è davvero il caso di spulciare gli atti parlamentari, neppure soffermarsi sui curricula, al contrario, credetemi, assai meglio penetrare nelle loro bacheche Facebook con la lente d’ingrandimento del dilettante antropologo. Lì c’è davvero tutto il necessario. Lì brilla, e soprattutto zampilla nei dettagli, la vera kriptonite culturale del mondo che sarà, del mondo che è già. Ma quale curriculum, intervista, dichiarazione d’intenti? Lì, proprio lì, c’è infatti modo di comprendere “en plein air” la trousse politica che gli è propria, un lessico, come dire, fluido, in grado di funzionare, laicamente, anche al momento dell’apericena, della vacanza, metti, a Ponza con prenotazione obbligatoria. Chi si sarebbe aspettato una continuità con gli alambicchi linguistici dei tempi trascorsi del Pci-Pds-Ds è davvero fuori strada, senza contare che c’è di mezzo un oceano generazionale tra le scuole quadri che dimoravano alle Frattocchie e il profilo attitudinale, da piccolo chalet, di una persona spigliata e di mondo come, metti, Ernesto Carbone, un vero intrattenitore di razza renziano.
In tutta la mia modesta carriera di twittatore (invero assai poco sistematico) non avevo mai toccato le vette che mi sono state concesse dalla riflessione volante sul nostro tema, ecco: “Quel #ciaone, prim’ancora che politico, è un segno antropologico, come dire: voi ancora lì con Platone e Aristotele, noi invece già a Formentera”. E’ stato un trionfo.
Non vorrei adesso sembrare eccessivamente leggerino, così come non vorrei che il giudizio sul disgraziato tweet di Carbone fosse letto in termini strettamente politici, certo che no, è proprio il dato antropologico, te l’ho detto, che occorre comprendere, al di là d’ogni giudizio di valore, nella nostra storia, dove l’eventuale ironia, se non proprio scherno puntuto da bar del tennis, per gli sconfitti del referendum sulle trivelle è davvero un fatto secondario, anzi, come direbbe Marx, sovrastrutturale. Nel senso che i referendum passano, svaniscono nei viali del tramonto dell’irrilevanza – già, non stiamo parlando del Monarchia-Repubblica e neppure del No all’abrogazione del divorzio con la loro epica pronta a riverberarsi perfino nella commedia cinematografica all’italiana – mentre il personale politico rimane, e d’ora in avanti, così temo per l’eroe involontario nostro, quel #ciaone pronunciato con modalità easy, se non proprio da Club Med, resterà a futura memoria, ciclopico, come il primo cent di zio Paperone, come l’anello a scomparto segreto del Vendicatore Invisibile, nell’obelisco politico di Ernesto Carbone.
Intendiamoci, non mi pare che coloro che hanno fatto professione immediata di sdegno, se non di lesa maestà rispetto al sacro imene dell’elettorato referendario violato da un perfido “ciaone”, possano pretendere un salvacondotto di attendibilità linguistica; di sicuro, non è il caso dei sostenitori del M5S, se è vero infatti che anche loro pescano nel medesimo lessico da brunch al “Pacha” di Ibiza, se non da bujaccaro di Tor de Schiavi. Penso qui a un cavallo non meno di razza vicino ai grillini che ama chiosare i propri commenti con un altrettanto perdibile “Vamos!”. La verità è che dietro la secolarizzazione del linguaggio portatile da sushi-bar c’è modo d’assistere all’apoteosi – perdonate il regionalismo – dei cazzari, perché cazzaro è bello, cazzaro convince, cazzaro raggiunge il giusto mezzo della mediocrità egemone, cazzaro porta perfino voti, cazzaro taglia la testa al toro della complessità, trasforma in oro l’inadeguatezza di massa.
Ma non vorrei sfuggire al nucleo vivo della nostra riflessione, ossia a quel “ciaone” che riverbera di subcultura da simpatico saluto in vista della convocazione per il calcetto. Per comprenderlo in tutta la sua ampiezza, sotto un bosco di braccia tese a V da concerto di John Legend, te l’ho detto, occorre far ritorno ai profili Facebook del personale politico di un centrosinistra post ideologico, davvero lì c’è tutto per assimilare lo spessore culturale del momento, la sensazione che non ci si divertiva così tanto dal tempo in cui ai tavolini dei bar di piazza San Lorenzo in Lucina a Roma mancava il succo di pomodoro, magari “corretto” con un po’ di vodka, dài.