Leggere Davigo a Teheran
“Che non ha vergogna, né mai ce l’avrà
Che non ha governo, né mai ce l’avrà
Che non ha giudizio…”
Chico Buarque de Hollanda, “O Que Será”
L’Associazione nazionale magistrati non è un governo né un’istituzione superiore agli altri poteri dello stato, anche se il suo nuovo presidente, Piercamillo Davigo, pensa in tutta coscienza che i politici dovrebbero sic et simpliciter uniformarsi alla dottrina e all’etica stabilite dai giudici: “Se la politica usasse per le sue autonome valutazioni gli elementi che noi usiamo per i giudizi penali, noi processeremmo degli ex. Senza conseguenze politiche”. Le purghe staliniane erano Disneyland, al confronto. Il sogno delle teste che cadono da sole, abolendo con l’automatismo del boia la necessità del conflitto tra il giudice e il re – tra il giudiziario e l’esecutivo sarebbe meglio dire, dacché Montesquieu è esistito: seppure in Italia faccia ancora schifo – è un incubo a occhi aperti. Gli occhi sottili e pungenti, che guardano dritto, che non sorridono nemmeno alle sue stesse battute, del dottor Davigo. Intervistato da Marco Travaglio per due pagine del Fatto di ieri, risponde puntuto a tutte le domande, del resto di scomode non ce n’è. Ma risponde così apodittico, così guatando dall’alto le miserie umane, che paiono sure del Corano, o glosse talmudiche, o brocardi dell’Inquisizione spagnola. Sura numero uno: “Nessun giustizialismo, nessuna guerra: se un politico ruba dobbiamo processarlo mica collaborare”. Più che un’intervista, l’enunciazione di una dottrina. Per risolvere il “conflitto”, spiega inesorabile, basterebbe che la politica rimuovesse le mele marce. Come? Fidando ciecamente nella sola indicazione dei magistrati, eliminando senza indugio le persone “coinvolte in base a prove o indizi”. Ma non vige la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio? No, non vige. Bisogna “rimuoverle in base a un giudizio non penale, ma morale e di opportunità”. La legge morale dentro di me, le manette sopra di te.
C’è qualcosa di rivoluzionario, ma non di inedito o scandaloso, nelle parole di Davigo. Quando Azar Nafisi si mise a leggere Lolita alle sue allieve di Teheran, fu scandaloso. Perché parlava di libertà individuale nella patria dei giudici-sacerdoti. Se oggi gli ayatollah di Teheran si trovassero tra le mani le sure di Davigo, non alzerebbero un sopracciglio, non troverebbero una sillaba da censurare. In teocrazia spetta ai custodi dell’etica tutto il potere, amministrato in concorso coi giudici (per concorso?). La loro parola prevale su ogni altra forma di organizzazione tra gli uomini. Democrazia e diritto liberale compresi. La presunzione di innocenza? “E’ un fatto interno al processo, non c’entra nulla coi rapporti sociali e politici”. Allora per esser colpevoli basta l’inchiesta? Per Davigo, sì. La presunzione di innocenza è una balordaggine: “Si dice aspettiamo le sentenze: ma il più delle volte le sentenze verranno pronunciate sulla base di elementi che sono già noti all’inizio, per esempio il contenuto delle intercettazioni o documenti sequestrati. Cosa impedisce alla politica di fare un’autonoma valutazione?”. Già, che le impedisce di inchinarsi al giudizio di Dio? Poi, al massimo, “Dio riconoscerà i suoi”, come diceva Arnaud Amaury alla crociata contro gli albigesi.
No, non farebbe scandalo leggere Davigo a Teheran. Anche perché, e inquieta un poco, una componente ricorrente nelle sure di Davigo è un’insistita pruderie. Esempi di intercettazioni private ma non trascurabili? Ecco che spunta “un trans”. Esempio di persone disdicevoli che però la fanno franca, ma il giudizio pubblico dovrebbe inchiodare? “Ha presente il professore universitario che faceva sesso con le allieve? L’hanno assolto”. Ognuno ha una colpa e c’è una colpa per ognuno. Del resto, Davigo era quello in grado di trovare il capo d’imputazione per confermare ex post gli arresti di Tonino: il crimine pre-esiste, è la Legge che lo rivela.