“Misurare” le riforme è anche più importante che annunciarle
Dopo due anni di governo, sono in molti a parlare di tempo di bilanci e delle rivoluzioni mancate del rottamatore fiorentino. Ma al di là delle polemiche quotidiane manca in Italia un vero dibattito su come misurare il successo di un piano di riforme di lungo periodo. La prima verità che molti, a partire dai politici, non vogliono ammettere è che la politica ha una grande influenza sull’agenda di tutti i giorni, ma molta meno di quanto si creda sulle grandi trasformazioni economiche. L’economia mondiale è talmente interdipendente che è sempre più difficile per l’Europa, e tanto più per un solo governo, dettarne il passo. Tuttavia persino negli Stati Uniti quasi il 40 per cento della ricchezza è prodotta dal settore pubblico, in Europa è poco meno della metà. I governi contano ancora molto, ma come ne possiamo misurare l’efficacia? Da due anni il dibattito politico sui successi (o fallimenti) di Renzi si gioca tutto su Jobs Act e gli “80 euro”.
Come è stato già scritto sul Foglio, una valutazione attenta su questi temi ha bisogno di tempo e, se la vorremo fare seriamente, dovrà andare oltre il mero numero di nuovi posti di lavoro creati. E tutto il resto? Che ne è stato del piano straordinario per l’edilizia scolastica dei primi mesi del 2014? O del programma Garanzia Giovani? Avere uno strumento per misurare lo stato di implementazione delle riforme è nell’interesse dei cittadini, e ancora di più di chi governa trovandosi a gestire mille dossier aperti (e mai chiusi) tra una crisi e l’altra. L’Italia non è il primo paese ad affrontare questo problema. “Don’t tell me what to do. Tell me how to do it”, diceva la Thatcher ai suoi collaboratori. L’attuale presidente della Banca mondiale, Jim Yong Kim, ha fatto della “scienza dell’implementazione” (la “deliverology”) lo slogan del suo mandato. La deliverology altro non è che un metodo di lavoro per l’implementazione delle politiche pubbliche ispirato alla consulenza manageriale. Si riassume in quattro punti, apparentemente semplici ma tutt’altro che facili da mettere in pratica.
Il presidente della Banca mondiale Jim Yong Kim (foto LaPresse)
Primo, per avere successo ogni istituzione deve darsi una lista molto ristretta di priorità chiave. Su queste occorre un piano d’azione e obiettivi chiari su cosa rappresenti un “successo” (e cosa un fallimento). Meglio avere una lista prioritaria di pochissime ma radicali trasformazioni che tante iniziative senza conseguenze. Secondo, devono essere stabilite metriche per misurare i successi (Quale l’attesa massima per un esame specialistico? Quante scuole devono essere operative entro la fine dell’anno? Quale tasso di abbandono scolastico?). Un obiettivo che non è misurabile non è una politica pubblica ma un’aspirazione. Terzo, deve essere stabilito un meccanismo chiaro di responsabilizzazione e tracciamento periodico dei progressi. Quarto, l’attuazione delle priorità deve essere seguita giorno per giorno da un team dedicato che lavora lontano dai riflettori. Per questo serve una Delivery Unit, ovvero un team ristretto di professionisti che monitori l’implementazione e aiuti l’amministrazione a “fare proprio” il cambiamento. Perché funzioni, queste persone devono rispondere al capo del governo ma lavorare giorno per giorno con l’amministrazione.
Non mancano gli esempi di deliverology. Il caso più noto è la Delivery Unit per l’implementazione delle riforme dei servizi pubblici creata all’inizio del suo secondo mandato da Tony Blair con Michael Barber, ma esistono vari casi di successo soprattutto nel campo dell’educazione. Tutto questo non significa trasformare la politica in management. Fare impresa e governare sono attività molto diverse. Innanzitutto i governi devono occuparsi di tutto e non possono specializzarsi su ciò che sanno fare meglio, come fanno le imprese. Per questo una Delivery Unit si deve occupare delle priorità ma non sostituisce l’amministrazione pubblica. Gli obiettivi sono anche diversi: lo scopo di un’impresa è fornire guadagni marginalmente superiori a un’altra impresa, quello dello stato è fornire servizi universali. Per questo l’obiettivo non è mai raggiungere l’obiettivo in sé ma la visione che vi sta dietro. La condivisione delle decisioni – come spesso accade in politica – è tanto importante quanto i risultati.
Renzi ha chiesto 1.000 giorni per far svoltare l’Italia e ha lanciato un sito, “Passo dopo Passo”, per raccontarne le riforme. Il sito della presidenza del Consiglio racconta però i provvedimenti approvati e non dice nulla sugli obiettivi del governo e gli effettivi risultati. Anche Palazzo Chigi ha bisogno di una sua Delivery Unit per seguire l’implementazione delle priorità del governo. Ma prima ancora ci vuole un nuovo modo di fare politiche pubbliche che parta da priorità, target e piani di attuazione. In fondo, il primo ad avere interesse a misurare l’efficacia del governo è proprio l’inquilino di Palazzo Chigi.
Umberto Marengo è Associate Fellow in International Political Economy presso l'Istituto Affari Internazionali
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