Lavoro in una fabbrica inglese del XVIII secolo

Il Partito della lagna continua, tra passato da idealizzare e profitto da odiare

Guido Vestuti
I tempi pre-Rivoluzione industriale sono davvero da rimpiangere? La tecnica capitalistica è utile e accettabile nella sua fase produttiva e distributiva? Nel valutare la civiltà in cui viviamo, critichiamo qualsiasi cosa e ogni cosa pretendiamo.

Nel valutare la civiltà in cui viviamo, critichiamo qualsiasi cosa e ogni cosa pretendiamo. La crisi dei partiti non ha coinvolto il partito della “lagna continua”, indirettamente previsto da Tocqueville. L’organizzazione industriale produce solo disastri e cerchiamo rifugio in un passato ideale. Nessuno vorrebbe più bere in coppe di peltro, ma si pensa che esistesse, già allora, qualcosa di superiore al tossico vetro. Oggi fa troppo caldo, domani fa freddo. Le grandi malattie sociali (la peste, il tifo, il vaiolo) sono passate. Ora ci sono solo quelle “individuali” (il tumore, l’infarto) che, in vero, ci rendono più soli, ma ci perseguitano con un’intensità molto minore. Eppure si è scontenti. Chi, come me, non lo è, immagina i tempi pre-Rivoluzione industriale come soffocati da una grandissima puzza, anche nei luoghi in cui si esibiva Shakespeare. I concittadini di rango mettevano nelle narici batuffoli impregnati di spezie aromatiche per salvarsi. Per il cattivo odore, più a sud, ci si inondava con grandi misture profumate.

 

Come sempre invece il passato si presenta leggiadro, e nessuno ricorda, che se non si desiderava vedere Amleto era pur sempre possibile sostituire lo spettacolo a quello delle impiccagioni nella pubblica piazza, ove i boia prolungavano l’agonia dei condannati, con una abilità superiore. Eppure il dannato pil cresceva, prima del 1750, solo dello 0,10 per cento, lontano dal 2 per cento successivo. Iniziò poi un periodo d’incremento demografico notevolissimo, di spostamenti di migranti, verso sporche metropoli, immortalate da Dickens, di mutamenti nell’agricoltura, di imponente canalizzazione. Questo quadro è britannico, ma è la prospettiva dell’avvenire. Negare questo progresso, non conviene nemmeno ai partiti di opposizione. L’industria, infatti, era istituzionalizzata nella fabbrica, dove nacque il dissenso e l’azione delle Unions.

 

Ma di fronte a questi indubbi successi – si pensi all’aumento di vita media – da parte dei miserabili borghesi, la critica socialista entra a gamba tesa. Chi ha seguito sul Foglio e su Nuova Storia Contemporanea il dibattito tra Alberto Mingardi e Luciano Pellicani, sa che il tema è il seguente: la tecnica capitalistica è utile e accettabile nella sua fase produttiva? Lo è in quella distributiva? Mingardi non accetta che la torta, così ben preparata, passi a cuochi che non stima e nella cui capacità non crede affatto. Pellicani è ottimista. Mingardi sottolinea gli enormi progressi effettuati nella società capitalista e insiste sulla efficacia del mercato e della tesi dei, pur minoritari, difensori. Una sola indicazione: la Banca mondiale calcola che la povertà mondiale è nel 2015 al 10 per cento contro il 47 per cento del 1990. La società moderna è una società dinamica e il profitto, anche in quella comunista, come illustra la fine tragicomica (a mezzo d’Ufficiale giudiziario) del Partito comunista dell’Unione Sovietica, è il suo carburante.

 

Pellicani non insiste certo sulla preferenza per un’economia diretta. La recente, nefasta previsione dei pianificatori cinesi sono un monito per un attento osservatore, come lui è. Ma vorrebbe una distribuzione più “giusta”. Un richiamo a un’etica socialista, pur in un momento di crisi di tale ideologia. Un mercato libero e una distribuzione coatta, sotto la protezione della giustizia. Una tesi ardita, perché il protettore sarà necessariamente giustiziere, per di più inesperto, che farà calare i profitti e, quindi, gli investimenti.
Ma lo sviluppo,  si dice, non è una medicina obbligatoria, una tesi contro il patrimonio della modernità, un’altra parola abusata, ma che, in questo contesto, rende l’idea. Quando il motore dovesse arrestarsi, ne vedremo delle belle. Le mamme non potrebbero contestare i sapori dei cibi della mensa; i cittadini l’inadeguatezza delle spiagge marine; né si potrà far emergere il disdoro, per gli studenti, di avere in Università la statua di Cecil Rhodes.

 

Bisogna proprio negare l’utilità del profitto, l’ampliarsi delle multinazionali in un’epoca di globalizzazione? E’ indispensabile dire così per compiacere intellettuali non competenti? Forse, ma non è questo l’argomento di Pellicani. Lo si dovrebbe fare per frenare l’impazienza del tempo che ci sommerge. Ma questo non è Marx, non è Stalin, non è Bernstein e nemmeno Gramsci. E’ uno più forte di tutti: Dostoyevski, e la sua angoscia per il divenire. Ne potremmo riparlare. Per ora teniamoci il profitto.

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