Simone Uggetti

Oltre Lodi. I pm resisteranno alla tentazione di sentirsi investiti di un mandato politico?

Claudio Cerasa
Non sappiamo se sia corretto sostenere che dietro il caso Uggetti vi sia un disegno finalizzato a colpire la classe dirigente del Pd. Sappiamo invece che le parole di Davigo sul tutti colpevoli fino a prova contraria generano un effetto emulazione.

Da ieri pomeriggio, complice l’inchiesta che ha portato in galera il sindaco Pd di Lodi Simone Uggetti, sappiamo due cose interessanti che riguardano ancora una volta il complicato rapporto tra magistratura e politica. La prima riguarda il fatto che in Italia una procura può ormai chiedere in scioltezza l’arresto per un sospettato indagato per turbativa d’asta (due piscine) senza che questo sospettato sia accusato di corruzione e senza che al sospettato sia spiegato come può un sindaco, che per legge non indice né espleta alcuna funzione in una gara, essere accusato di aver turbato un’asta senza che sia provata contestualmente un’intesa criminale con i funzionari del comune che per legge, come recita il testo unico degli enti locali, “hanno la responsabilità delle procedure d’appalto e di concorso”. La seconda cosa importante, ancora più delicata, riguarda un tema cruciale che nei prossimi mesi rischia di essere centrale per capire se nel nostro paese esiste quell’“assedio giudiziario” che come ha scritto qualche giorno fa il nostro amico Giuliano Cazzola punta ad arrestare il governo Renzi.

 

Forse esagerano quei parlamentari che sostengono (ieri lo ha detto il senatore D’Anna di Ala) che l’inchiesta di Lodi sia il segno di “un’offensiva della magistratura contro Renzi”. Non c’è dubbio che il circo mediatico giudiziario infilerà molta melma nel ventilatore per dimostrare il “coinvolgimento” morale nell’inchiesta di Lodi dell’ex sindaco di Lodi e attuale vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini e non c’è dubbio che i professionisti del fango applicheranno alla lettera il teorema Davigo, già fatto proprio dal Movimento 5 stelle e dalla Lega Nord, che prevede l’esistenza in Italia solo di presunti innocenti tutti colpevoli fino a prova contraria. Non sappiamo se sia corretto sostenere che dietro Lodi vi sia un disegno finalizzato a colpire la classe dirigente del Pd. Sappiamo invece che la metaforica chiamata alle armi di Davigo, facendo leva sia su un generale malcontento che esiste nelle procure italiane sia su una generale insoddisfazione registrata nella magistratura politicizzata contro il presidente del Consiglio, ha creato le condizioni giuste per far maturare un fenomeno drammaticamente conosciuto ai tempi di Tangentopoli: l’effetto emulazione, le inchieste a catena, la trasformazione della questione morale nella prima grande emergenza nazionale da combattere con urgenza, a qualsiasi costo e con tutti i mezzi possibili, dalla magistratura. E’ difficile dire se l’inchiesta di Lodi possa rientrare all’interno di questo fenomeno. Ma è altrettanto difficile non notare che in molte delle inchieste che negli ultimi tempi stanno colpendo la politica vi sia, nelle stesse parole dei magistrati, un tratto che va al di là del rispetto del codice penale. E’ successo con l’inchiesta sulle trivelle, con il pool di Potenza che ha messo sotto osservazione anche la discrezionalità con cui la politica compie alcune scelte. Non si può escludere che succeda anche a Lodi.

 

“Uggetti – ha scritto nell’ordinanza di custodia cautelare il gip di Lodi – ha tradito l’alta funzione e l’incarico attribuitogli dai cittadini, gestendo la cosa pubblica in maniera del tutto arbitraria e prepotente, violando non solo le normative di settore ma, prima ancora, il mandato politico, di tutela, perseguimento e attuazione del primario bene collettivo e pubblico”. Il tema in fondo è tutto qui: fino a quando i magistrati riusciranno a resistere al desiderio di sentirsi investiti di un “mandato politico” e di marciare uniti contro un governo non amico occupandosi di far rispettare più un codice morale che un codice penale? Parlare di “assedio giudiziario” forse è ancora una provocazione. Lo è oggi, almeno fino a quando l’emulazione non diventerà qualcosa di più di una semplice tentazione.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.