Costituzionalisti anti modernisti, per il "no" a tutto. Alcune perle
E’ tempo di dibattiti sul referendum costituzionale prossimo venturo. E’ tempo di costituzionalisti che spendono autorevolezza e prestigio principalmente per contrastare la proposta di modifica della Carta costituzionale approvata dal Parlamento. E’ tempo di appelli solenni, di allarmi e di richiami alla salvezza della Repubblica, soprattutto, come si diceva, da parte di professori di Diritto costituzionale ed ex magistrati della Consulta il cui pensiero, tuttavia, andrebbe valutato con riferimento alle problematiche più urgenti della modernità: globalizzazione, influenza della finanza internazionale, ambiti della libertà individuale, ruolo dei mercati, nuova dimensione della sovranità statale e via discorrendo. E’ opportuno allora procedere a una rassegna delle tesi di alcuni fra i principali costituzionalisti italiani, quantomeno per avere un’idea più appropriata della loro capacità di “stare sul pezzo”, come si suol dire, rispetto ai tempi che stiamo vivendo e alla direzione che il resto del mondo, visto da una dimensione non italocentrica, sta prendendo.
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Iniziamo da Gustavo Zagrebelsky, professore emerito dell’Università di Torino ed ex presidente della Corte costituzionale; uno che il diritto costituzionale più che masticarlo lo confeziona letteralmente da molti decenni a uso e consumo degli studenti e dell’opinione pubblica più impegnata che leggono i suoi libri di successo. Per intenderci, un giurista di assoluto rilievo, che è rimasto ancorato però, coma la maggior parte dei suoi colleghi, alle categorie concettuali del Novecento e che con quegli occhi osserva e giudica il mondo. Ebbene, da un po’ di tempo Zagrebelsky polemizza aspramente nei suoi testi contro la perdita di sovranità degli stati a favore della finanza internazionale, contro i creditori che pretendono il pagamento dei debiti da parte di quegli stessi stati cui sono stati prestati i denari, contro, va da sé, la globalizzazione che rappresenterebbe un gioco a somma zero. Se ti arricchisci tu mi impoverisco io, è la sintesi del noto costituzionalista. Ecco lo Zagrebelsky pensiero: “Questa è la globalizzazione, sinonimo di saturazione degli spazi. Se ciò è vero, significa semplicemente che la libera ricerca della felicità nel nostro tempo, che è un tempo in cui felicità e ricchezza sono considerate la stessa cosa, comporta l’infelicità altrui ed è un fattore sociale d’ingiustizia e di sfruttamento. L’idea autoassolutoria del capitalismo finanziario, secondo la quale l’arricchimento è come l’onda che solleva tutti, sarebbe valida negli spazi aperti, non nel mondo di oggi che è chiuso sotto tutti i punti di vista rilevanti… Ogni miglioramento di una parte dell’umanità genera sfruttamento e miseria nell’altra. La componente numerica della prima parte si restringe in proporzione all’allargamento della seconda. I divari aumentano. L’uroboro globale è in azione e si sta saziando”. (“Moscacieca”, Laterza 2015).
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Nota al grande pubblico per le sue numerose e pugnaci apparizioni televisive, la professoressa Lorenza Carlassare, prima donna a ricoprire una cattedra di Diritto costituzionale in Italia, vanta attualmente il titolo di docente emerito all’Università di Padova e può essere considerata fra i più strenui difensori di una lettura ultra tradizionalista della Costituzione repubblicana. Carlassare non ha mai nascosto ripugnanza culturale e intellettuale per il mondo berlusconiano, per la riforma della Carta proposta dall’ex presidente del Consiglio. Oggi è anche tra i 56 costituzionalisti che si oppongono alla riforma costituzionale che verrà sottoposta a referendum il prossimo ottobre. In un saggio uscito per i tipi della Feltrinelli nel 2012 dal titolo “Nel segno della Costituzione - La nostra Carta per il futuro”, la professoressa Carlassare utilizza 245 pagine per l’esegesi della Costituzione, e un apposito capitolo dedicato ai diritti e alle libertà fondamentali fra le quali però non figurano mai né il diritto di proprietà, né la libertà d’impresa, né il principio della libera concorrenza.
A proposito di mercati e globalizzazione il tono del discorso è pressoché identico a quello di Zagrebelsky: “Tutto ormai è orientato agli umori dei mercati finanziari: le persone, le imprese, gli stati. Una nuova forma di totalitarismo anonimo e cieco domina e coinvolge l’intero pianeta. Tutto viene a esso subordinato. A un suo cenno, economie deboli – e anche meno deboli – sono sacrificate con indifferenza leggera, interi popoli sono costretti alla fame. Di fronte a queste agghiaccianti prospettive non resta che cercar di invertire la rotta ancorandosi a valori diversi per non essere travolti”. In un altro scritto pubblicato nel fascicolo n. 3/2015 della rivista costituzionalismo.it, “Diritti di prestazione e vincoli di bilancio”, la professoressa afferma: “Non è compatibile con il disegno costituzionale che alle fasce più deboli siano riconosciuti (ma verrebbe dire graziosamente concesse) dei diritti, che sono diritti fondamentali, solo se e quando le risorse disponibili o la situazione economica lo consentono”.
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Anche l’ex vice presidente della Corte costituzionale, Paolo Maddalena, è fra i 56 firmatari del documento critico nei confronti della riforma costituzionale renziana. Teorico dei beni comuni, non ha grande considerazione per la proprietà privata e per la cultura liberale e liberista. Nel suo saggio “Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata ed interesse pubblico” (Donzelli 2014), Maddalena si attarda nell’esaltazione della proprietà pubblica e nella dimostrazione che ogni forma di proprietà privata trova legittimazione esclusivamente nella sovranità dello stato, cosicché, sia logicamente sia giuridicamente, la proprietà pubblica sarebbe la fonte di quella privata. La Costituzione repubblicana avrebbe posto fine alle profonde ingiustizie tipiche della società liberale ottocentesca che innalzava la proprietà a diritto fondamentale del cittadino.
Questa una delle affermazioni più significative dell’autore: “La prima cosa da sottolineare è che il territorio, come la storia degli istituti giuridici e la logica del moderno costituzionalismo hanno dimostrato, appartiene, a titolo di sovranità, al popolo, e che, di conseguenza, è al popolo, il quale mantiene, come si è ripetuto, una ‘superproprietà’, che spetta il potere sovrano di distribuire, nelle diverse aree di utilizzo, le sue risorse, nonché di stabilire le relative modalità di gestione”. Poco più avanti il discorso diventa ancora più esplicito: “Alla luce di queste premesse, e in considerazione dell’enorme preponderanza assunta dalla proprietà privata rispetto alla proprietà collettiva, a nostro avviso, il compito principale del legislatore ordinario è diventato quello di redistribuire la ricchezza del territorio fra proprietà privata e proprietà collettiva, privilegiando questa ultima”. La conclusione è davvero singolare e foriera di conseguenze non proprio liberali: “Se si conviene sul fatto che non esiste alcun nucleo essenziale del diritto di proprietà da valutare come diritto fondamentale… è evidente che non ci siano ostacoli ad ammettere che il popolo mantiene sulle parti di territorio cedute in proprietà privata quella che Carl Schmitt chiama la superproprietà, con la conseguenza del potere di revocare la cessione, facendo tornare nel pubblico ciò che era diventato privato”.
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Il professor Stefano Rodotà non ha bisogno di presentazioni. Non può essere annoverato fra i costituzionalisti, è professore emerito di Diritto civile dell’Università Sapienza di Roma, ma si occupa da tempo di temi di diritto pubblico e costituzionale e vanta una grande esposizione mediatica. Teorico anch’egli del benecomunismo, è autore di numerosi saggi sui diritti fondamentali e sulla Costituzione. In una delle sue ultime fatiche dal titolo “Solidarietà - Un’utopia necessaria” (Laterza 2014), egli lamenta il fatto che la tutela dei diritti sociali (e dunque il loro finanziamento) dipenda dalle risorse economiche disponibili (come se la ricchezza complessivamente prodotta in un paese fosse una variabile indipendente) e propone una redistribuzione del reddito nazionale che tenga unicamente conto della salvaguardia di questi diritti senza prendere in alcuna considerazione la proprietà e la libertà individuale di chi quel reddito produce: “Ma la crisi economica, e la scarsità delle risorse disponibili da essa determinata, ripropongono la dipendenza totale della solidarietà da un fattore esterno, dalle risorse economiche disponibili, imponendo così una visione dei diritti sociali unicamente come diritti sottoposti alla condizione obbligante dell’esistenza dei mezzi finanziari necessari per renderli effettivamente operanti. Ma, facendo diventare questo il criterio per il riconoscimento dei diritti sociali, viene messo in discussione il carattere proprio dello stato costituzionale di diritto come luogo di complessivo riconoscimento di diritti fondamentali tra loro indivisibili”.
Ancora una volta è la proprietà privata a essere bersaglio delle critiche benecomuniste: “Si potrebbe dire che siamo di fronte a una decostituzionalizzazione accompagnata da una costituzionalizzazione in termini economici, nella quale si registra una rinnovata centralità della proprietà, che determina la subordinazione dei diritti sociali a una discrezionalità politica concepita come insindacabile potere proprietario sulle risorse disponibili; e una dipendenza della persona dalle risorse proprie, necessarie per acquistare sul mercato quel che dovrebbe essere riconosciuto come diritto e che, invece, si presenta come merce, con un evidente ritorno alla cittadinanza censitaria”.
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Alla Sapienza di Roma insegna anche il professore Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto costituzionale, che nel febbraio 2016 ha pubblicato per Laterza un saggio dal titolo eloquente “Contro il revisionismo costituzionale”. Contro il mercato, contro la globalizzazione, contro il pareggio di bilancio, a favore delle politiche di indebitamento pubblico ma contrario alla pretesa dei creditori di ottenere la restituzione dei soldi prestati allo stato, nel saggio sopra citato Azzariti scrive: “E l’uomo flessibile è una persona disposta a piegarsi – per non spezzarsi – a seconda di come spira il vento, ripiegato su se stesso, lasciato solo di fronte alle avversità del vivere, privato di una comunità di riferimento, alla perenne ricerca dei mezzi necessari per sopravvivere. L’homo flessibile potrà anche arricchirsi – perché no – ma solo se sarà in grado di porsi al servizio del dio mercato e seguire, senza opporsi, il sospiro del vento. Il costo, quel che certamente deve abbandonare, è ogni pretesa di limitare il sovrano, di far valere un proprio progetto di emancipazione sociale al di là del mercato. Sarà tutelato se e nei limiti in cui l’economia globale lo consentirà. Se questo è un uomo questo è un uomo senza dignità”.
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In “I diritti fondamentali - Libertà e diritti sociali” (Giappichelli 2011), il professore Paolo Caretti, già ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università di Firenze, firmatario anch’egli del documento dei 56, antepone il soddisfacimento dei diritti sociali alle esigenze economico-finanziarie ritenendo che “in questo senso, appare persuasivo il rilievo secondo il quale fra le esigenze economico-finanziarie ed esigenze sociali il bilanciamento va comunque compiuto, e la nostra Costituzione impone che si tratti di un bilanciamento ineguale… perché il fine (il soddisfacimento dei diritti sociali della persona) non può essere posto sullo stesso piano del mezzo (l’efficienza economica)… Ciò non toglie che questa (l’efficienza economica, ndr) non possa essere sacrificata al di là di un limite ragionevole, che tuttavia non è identificato da improbabili calcoli sui bisogni delle generazioni future”.
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Tra gli alti magistrati attualmente ancora in servizio spicca il pensiero del dott. Luciano Barra Caracciolo, presidente di sezione del Consiglio di stato, che nel suo “La Costituzione nella palude - Indagine su trattati al di sotto di ogni sospetto” (Imprimatur 2015) si scaglia contro l’Europa, la moneta unica, la globalizzazione, i mercati aperti e la proprietà privata. Dalla seconda di copertina: “Le teorie federaliste sono, fin dalla nascita, il vettore della restaurazione neoliberista rispetto ai modelli di società pluriclasse e di democrazia partecipata incentrati sul welfare, inteso come sistema costituzionalizzato di risoluzione del conflitto sociale: tutta la costruzione europea si snoda lungo una linea di riaffermazione dell’atipica sovranità, internazionalistica, delle leggi del mercato, in contrapposizione, irriducibile, alla sovranità democratica nazionale dei diritti sociali, cioè ai paradigmi di democrazia affermati nelle costituzioni”.
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In ultimo, una citazione tratta dal libro del professor Ernesto Bettinelli, ordinario di Diritto costituzionale a Pavia, il quale nel libro “Voteremo per questo simbolo - La Costituzione della Repubblica Italiana” edito da Rizzoli nel 2008, discutendo del principio costituzionale di uguaglianza sostanziale sancito dal secondo comma dell’articolo 3, afferma che “anche una lieve riduzione della progressività (del prelievo fiscale, ndr), se diviene fattore di aumento del divario economico tra i cittadini, contravviene al principio costituzionale”.
Et de hoc satis.