Bensvegliati: la legge Cirinnà lascia ai magistrati libertà d'azione
Duole riconoscerlo: la senatrice Cirinnà ha ragione. Dopo il voto della legge sulle unioni civili vari esponenti di Area Popolare hanno vantato l’esclusione della stepchild adoption, cioè della possibilità del convivente di diventare genitore adottivo del figlio biologico dell’altro convivente dello stesso sesso. Una possibilità introdotta per la prima volta per via giudiziaria dalla sentenza n. 299 del 30 giugno 2014 del Tribunale per i minorenni di Roma, seguita da (poche) pronunce dello stesso e di qualche altro ufficio giudiziario. Nel fine settimana il ministro Costa è andato oltre: ha spiegato che “prima sulla stepchild adoption c’era un vuoto”, che la giurisprudenza ha provato a colmare. Ma ha aggiunto che adesso non è più così: “C’è una norma chiara che la esclude – sempre sue parole – a maggior ragione alla luce dei lavori parlamentari. E quindi mi attendo di vedere chiusa una fase di giurisprudenza creativa”. La senatrice Cirinnà gli ha risposto che è vero il contrario, e ha richiamato in proposito il comma 20 dell’articolo unico della legge che porta il suo nome. Con tutto il rispetto per il ministro: a) prima della legge non c’era alcun vuoto normativo, vi è stata invece una esegesi arbitraria di qualche giudice; b) la nuova legge ha consacrato questa giurisprudenza minoritaria, proprio “alla luce dei lavori parlamentari”; c) nella medesima direzione va l’intero sistema introdotto dalla legge Cirinnà.
Nessun vuoto normativo precedente
Il nocciolo della sentenza del Tribunale per i minorenni di Roma ruota attorno alla estensione da dare all’articolo 44 della legge sulle adozioni, la n.184 del 1983, il quale stabilisce le eccezioni alla regola secondo cui i bambini possono essere adottati solo da un uomo e da una donna uniti in matrimonio. In particolare, la lettera d) di tale articolo permette l’adozione “quando vi sia la constatata impossibilità di un affidamento preadottivo”. La lettera della norma e la costante giurisprudenza hanno sempre riferito questa “impossibilità” a una condizione di fatto, alla circostanza cioè che per il minore non si trovino aspiranti all’affidamento. Il Tribunale per i minorenni di Roma ha ritenuto invece che la “impossibilità” vada intesa anche come “di diritto”: nel caso concreto era “impossibile” l’affidamento preadottivo della bambina perché la legge italiana lo permette solo a coppie coniugate, non alla convivente della madre biologica. Constatata l’“impossibilità” di diritto all’affidamento preadottivo, i giudici minorili romani hanno ritenuto la “possibilità” dell’adozione da parte della donna con altra donna. Un passaggio illogico: se il nostro ordinamento preclude l’affidamento preadottivo a persone non unite in matrimonio, vuol dire che chi non è sposato non è ammesso a svolgere nemmeno il periodo preparatorio e funzionale all’adozione; come si può poi sostenere che egli è in grado di adottare senza problemi, facendo leva sulla preclusione attinente al periodo antecedente? Che non vi fosse vuoto normativo è confermato dalla Cassazione: la sentenza 27 settembre 2013 della Prima sezione civile ricorda che la nozione di “impossibilità di affidamento preadottivo” “attiene solo all’ipotesi di mancato reperimento (o rifiuto) di aspiranti all’adozione legittimante (…), essendo le fattispecie previste dalla norma tassative e di stretta interpretazione”.
Festeggiamenti per l'approvazione del ddl sulle unioni civili a Fontana di Trevi (foto LaPresse)
La nuova legge apre alla stepchild adoption
Il comma 20 citato sia da Costa che da Cirinnà a sostegno delle rispettive tesi è la sintesi del nuovo ordinamento, perché equipara in tutto e per tutto i civiluniti ai coniugi, salve – in apparenza – le norme della legge sull’adozione e poco altro. “In apparenza” perché, dopo aver escluso le disposizioni sulle adozioni, il comma conclude con questa espressione: “Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”. Perché mai aggiungere questa frase quando l’esclusione non lascerebbe margine di dubbio? Lo ha spiegato l’on. Micaela Campana, quando ha svolto la sua relazione nella seduta della Commissione Giusizia della Camera, il 3 marzo 2016. Tutti sanno che fra i lavori preparatori la relazione, oltre a costituire l’atto di avvio della discussione in un ramo del Parlamento, è il binario sul quale si articola la discussione stessa, quindi contribuisce all’interpretazione della legge. Il parlamentare relatore è poi assistito dagli uffici della Camera di appartenenza, quindi la sua non è una mera opinione personale. In quella sede la relatrice ha chiarito che “l’attuale formulazione fa salva la giurisprudenza in merito che consente ai giudici, dopo una valutazione caso per caso, di poter concedere l’adozione anche al genitore sociale per i bambini che sono presenti nelle unioni omosessuali”. Se si legge il seguito dei lavori parlamentari non vi è un solo passaggio in cui questa tesi sia stata smentita un esponente del governo.
Vi è da ultimo un argomento di sistema
La Corte europea dei diritti, e con essa la Corte costituzionale italiana, hanno sempre affermato che ogni stato – fra quelli che aderiscono al Consiglio d’Europa – può scegliere, fatti salvi i diritti più elementari, dall’assistenza sanitaria alla successione nella locazione (in Italia da tempo riconosciuti), se disciplinare le unioni civili in modo eguale o in modo distinto rispetto all’unione matrimoniale. Se però il singolo stato opta per un regime sostanzialmente eguale, far restare fuori qualcosa dal regime delle unioni costituisce una discriminazione, secondo i parametri della stessa CEDU. La legge Cirinnà individua un regime delle unioni civili sovrapponibile a quello del matrimonio quanto al rito, ai diritti e ai doveri reciproci, fino alla legittima nella successione e alla reversibilità. Con questa scelta – al di là di quanto prevede il comma 20 – lasciar fuori non solo la stepchild adoption, ma ogni tipo di adozione, suona discriminatorio e permette di ricorrere con successo alla Consulta e alla CEDU per vedersela riconosciuta. E’ l’effetto del rilievo pubblico conferito all’unione civile, e della sua conseguente equiparazione alla famiglia fondata sul matrimonio: si è creato un modello istituzionale eguale fra i due tipi di legami, anche quanto ai figli. Se il ministro Costa ha dubbi riveda, fra le altre, la sentenza CEDU Grande Chambre, 13 febbraio 2013, X et Autres c. Autriche, in particolare ai §§. 107-110.
Alla fine, quel che può vantare la parte dell’attuale maggioranza che si è detta pro famiglia è l’eliminazione dell’obbligo di fedeltà dal catalogo dei doveri dei civiluiniti. Per chi ha puntato a differenziare il regime delle convivenze da quello delle famiglie, la facoltà di cornificare il partner è certamente un gran risultato!