Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Di Maio e "la difficoltà di essere come tutti”

Marianna Rizzini
L'ingrato compito dell'Alfano di Grillo di tenere insieme i movimenti nel Movimento e di scendere a patti con la realtà del fare.

Roma. “Il desiderio di essere come tutti”, si intitolava il libro di Francesco Piccolo vincitore del Premio Strega 2014. E chissà ora, in cuor suo, quanto vorrebbe poter essere come tutti Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera e plenipotenziario a cinque stelle cui tocca in sorte il compito di differenziare l’indifferenziabile. Perché ora che nel mondo grillino l’essere anche “movimento di governo” (nelle città) espone al rischio di dover scendere a patti con la realtà del fare (e se fai il sindaco e non stai a guardare il soffitto l’avviso di garanzia per abuso d’ufficio et similia può capitare), il plenipotenziario sperimenta la difficoltà vera: dover negare di essere per forza di cose alle prese con i problemi di chiunque si trovi a governare (un’eresia per i crismi a cinque stelle). Al delfino Di Maio, dunque, dissimile dal prototipo Beppe Grillo quanto un Angelino Alfano ai tempi di B., capita di dover tenere insieme, nella teoria, ciò che non sta più incollato nella pratica. Due sono infatti (al momento) gli M5s: uno di pancia e uno di testa, uno di territorio e uno di palazzo, uno con regole astratte e l’altro con regole concrete. E se il “caso Pizzarotti” rende impossibile far finta di nulla, è Di Maio che deve barcamenarsi.

 

Parla sul Corriere della Sera, infatti, il vicepresidente della Camera, e a Firenze al “restitution day”, e per tenere appiccicate le cinque stelle ormai centrifughe si fa felpato come un leader di corrente nella Prima Repubblica e arzigogolato come il suddetto ex delfino (poi Bruto) del Cav. Angelino Alfano: dice di “non avere il potere di decidere sospensioni”, Di Maio; dice che è tutta farina del sacco di Beppe, “Garante del Movimento”. Solo che Beppe, durante il suo show, l’altra sera, ne ha detta una troppo grossa sul sindaco di Londra di origine pachistana Sadiq Khan (“se si fa esplodere a Westminster…”, ha scherzato il comico, creando un caso diplomatico). E allora urge rimettere il Garante nel ruolo più inoffensivo di teatrante, da “non strumentalizzare in chiave politica”, dice Di Maio, anche se Grillo, sul caso Pizzarotti, proprio in chiave politica si è speso (e non poteva non farlo, nonostante tutti i proclami sul suo ritiro a vita privata, vista la risonanza della questione e dopo la morte di Gianroberto Casaleggio).

 

“Regole, regole, regole”, questo il ritornello dietro cui si trincerava ieri Di Maio, mentre tutt’intorno il malumore infuriava e le truppe si dividevano in due tronconi: possibilisti (verso il sindaco di Parma sospeso) e non-possibilisti, riformatori e ortodossi: solita storia, sì, ma stavolta è peggio. Ci sono infatti le amministrative in città non piccole né defilate; c’è che, candidandosi i Cinque stelle al governo di Roma e Torino (per non dire del paese), il non-statuto e i vari “codici” locali di “comportamento degli eletti” diventano, nell’estrema rigidità etica, come il vestito nuovo dell’imperatore: di fatto non ci sono o diventano illusione ottica. Risultato: l’imperatore è nudo, e il M5s se ne va in giro devoto alle “regole” ma con mille deviazioni dalle non-regole. E a Di Maio cade sul piatto l’onere di mostrarsi internazionale (tour europeo e magari pure americano per far conoscere il Movimento, dice al Corriere) nel giorno in cui i problemi nazionali rischiano di offuscare le stelle (per giunta alla vigilia della sperata accensione nei cieli più ambiti). “Non vediamo l’ora che le regole del Movimento vengano applicate a tutti”, dice infatti il plenipotenziario-delfino a Firenze per tenere “alti i cuori”, sviando l’attenzione sul referendum d’ottobre (“quella che doveva essere la rivoluzione della modernità si è trasformata in Frankenstein”) e lanciando quello che, viste le circostanze, da slogan diventa più che altro wishful thinking: “Siamo pronti a governare questo paese perché abbiamo già dato testimonianza con i nostri atti di essere credibili”.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.