Giorgia Meloni e Alfio Marchini (foto LaPresse)

Cosa vogliono dimostrare i teorici del “partito dei comuni”

Salvatore Merlo
E' letteralmente un groviglio, un garbuglio, uno gnommero, un sauté, una sbrisolona politica, un pasticcio di senso che in qualche modo rivela forse la campagna elettorale più ideologica della recente storia italiana, ma paradossalmente nel tempo meno ideologico che ci sia mai stato.

Roma. E certi accenni di Giorgia Meloni al lepenismo che poco s’incastrano con il Campidoglio, certe sue pizzicate a Silvio Berlusconi, ma pure un certo fraseggio per così dire colorito di Luigi de Magistris nei confronti di Matteo Renzi (“ti devi cacare sotto”), come gli occhiolini podemisti di Stefano Fassina, o l’identicomachia di Milano, ovvero la battaglia degli uguali tra Beppe Sala e Stefano Parisi, ciascuno di questi dettagli di campagna elettorale nelle grandi città italiane rivela la strana natura di un voto che dovrebbe essere comunale ma in cui tutto viene vissuto e rigiocato con lo stesso manicheismo della politica nazionale, e con lo stesso cicaleccio. E insomma i candidati al comune di Roma, di Napoli, di Torino e di Milano si offrono ai massimi sistemi, alla risoluzione di nazionali assilli, a far barriera a destra, a far argine al centro, a dar lezioni a sinistra, ciascuno metafora di qualcos’altro: chi di un nuovo Nazareno, chi d’una destra più dura e grillina, chi d’un grillismo più duro e di destra, comunque nuovi orizzonti e diversi equilibri.

 

Sui manifesti che inesorabilmente sporcano da alcune settimane i muri e i mezzi di trasporto pubblici delle città d’Italia, i candidati sindaco fanno lo sguardo pensoso, assassino, gravoso, meditativo, amicale, talvolta poco sveglio, spesso estremamente photoshoppato. E allora Gianni Lettieri promette a Napoli telecamere in ogni angolo della città, il raddoppio del numero degli autobus e l’addestramento di trecento super poliziotti, mentre De Magistris sventola una delibera sul reddito di cittadinanza, e Meloni, Marchini e Fassina, a Roma, quasi ripetono lo stesso slogan eletorale – “una scelta d’amore” (Meloni), “amo Roma” (Fassina), “il cuore” (Marchini)  – con Roberto Giachetti che dice “Roma torni Roma”, Virginia Raggi che invita al “(Co)Raggi(o)”, e Chiara Appendino che invece a Torino dice che “si riparte”. Ed è certo la politica che si mostra, il duello che si annuncia, ai sindaci è richiesto di sagomare una qualche forma di rinnovamento municipale, di occuparsi di monnezza e di buche per le strade, di autobus stracolmi e di metropolitane incompiute. Eppure la campagna elettorale di queste amministrative non sembra si stia giocando troppo sulle zone a traffico limitato, e non è soltanto sulla sicurezza o la pedonalizzazione delle vie del centro storico che si accelera il metabolismo di elettori e candidati, i quali si animano soprattutto quando Meloni accusa Marchini (dunque Berlusconi) di voler favorire Renzi, o quando De Magistris, ignorando il suo avversario Lettieri, passeggia sul palco d’una pubblica iniziativa a Napoli, e impettito, camicia fuori dai pantaloni, urla: “Renzi, vai a casa. Devi avere paura. Ti devi cacare sotto!”.

 


Luigi De Magistris (foto LaPresse)


 

E c’è dunque latente, o strisciante, o persino palese, o addirittura orgogliosamente dichiarata un’identità che al di là degli interessi locali e cittadini si specchia invece nella politica nazionale, nei suoi orizzonti, nelle sue sempre più inafferrabili strategie e nei suoi incerti equilibri. Così tutti percepiscono, a cominciare dai protagonisti sul palcoscenico girevole delle elezioni, che votare Raggi a Roma significa anticipare il sapore che avrebbe Luigi Di Maio installato a Palazzo Chigi, e che invece Sala e Parisi a Milano sono i candidati che alludono alle carinerie nazarene, a una destra e a una sinistra che hanno sperimentato, e forse continueranno a sperimentare, qualcosa che va oltre la normale convivenza, quella cosa che il giornalismo, con la sua tendenza a nutrirsi di formule entro cui comprimere le proprie bieche semplificazioni, chiama patto del Nazareno, o altrimenti Partito della nazione.

 

Ed è letteralmente un groviglio, un garbuglio, uno gnommero, un sauté, una sbrisolona politica, un pasticcio di senso che in qualche modo rivela forse la campagna elettorale più ideologica della recente storia italiana, ma paradossalmente nel tempo meno ideologico che ci sia mai stato. A ogni candidatura, in ogni città, si fa corrispondere infatti un diverso e non compatibile orizzonte nazionale, destinato a gonfiarsi o a perdere peso a seconda dell’esito di queste strane elezioni. E d’altra parte basta osservare gli attori, i candidati: ognuno ha i suoi modi, i suoi argomenti, le sue specialità, le sue parole magiche e segrete che travalicano l’antropologia e la logica cittadina per farsi qualcos’altro. E allora Fassina a Roma fa la sinistra sociale, tendenza Podemos, alternativa e restauratrice dei vecchi e forse irrottamabili equilibri nel Pd, quella che coltiva il gusto chissà un po’ autolesionista dei “pochi ma buoni”, mentre al contrario Giachetti, come Renzi, a Roma espone idee solidali e genericamente di sinistra, ma si presenta dicendo che “io cercherò di prendere anche i voti della destra”. Così a quanto pare si deve scegliere tra Renzi e la vendetta dei rottamati, o tra un grande centro e l’imperium di Casaleggio, o tra il lepenismo amatriciano di Meloni e una forma di destra più compos sui rappresentata da Marchini.

 

Tutto un fecondo ma imprevedibile marasma che ridisegna confini, allude a ipotesi nazionali che sembravano superate o finora semplicemente adombrate, o comunque sempre possibili e incerte. E tutto si gioca sull’eccesso di senso, a destra come a sinistra, persino nella competizione interna agli schieramenti spappolati, anche dove non si corre per vincere ma per contarsi: non si vota Roma, ma la scalata di Salvini al berlusconismo declinante contrapposta all’alternativa alfabetizzata cui il Cavaliere si affida per resistere. Non si vota Napoli ma il partito del Nazareno che assedia il partito del sud, quello di De Magistris, con il suo alterno alleato Michele Emiliano, quel meridionalismo un po’ arruffato eppure di successo che è ancora un altro modo di stare a sinistra, lontano da Renzi ma pure lontano da Fassina. Le urne più pazze del mondo si aprono il 5 giugno, e forse mai s’erano viste tante Italie diverse concorrere in un elezione sola. E comunale.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.