Stefano Parisi e Giuseppe Sala durante una conferenza (foto LaPresse)

Chi sono i milanesi che dovranno scegliere tra Sala e Parisi

Maurizio Crippa
Oggi Claudio Cerasa intervista i due candidati sindaco. Sul nostro sito la diretta streaming dell'incontro dalle 17

“Mi godo brevi soste felici
di sospensione e improvvisa
adesione. Mi oriento
verso un mondo più affabile e poroso”
(Maurizio Cucchi, “Malaspina”)

 

Da che parte si orientino i milanesi, i pragmatici, laboriosi e moderati milanesi, ora che sono chiamati a scegliere il loro futuro sindaco – mai come questa volta un primo cittadino-manager, comunque vada – è una domanda a un tempo semplice e complessa. Soprattutto è una domanda interessante anche posta da fuori, lontano dai confini della città e della metropoli. Si orientano verso un “mondo più affabile e poroso”. Senza dubbio. Forse non nel senso che a quegli aggettivi dava Maurizio Cucchi, gran poeta milanese. Ma sono due aggettivi che la illuminano, questa città. Perché è affabile Milano, non solo per i milanesi-milanesi, che sono storicamente pochi. Ma per chi ci viene, ci si impianta e ci fa su una scommessa. E perché poroso il milanese, inteso cittadino, lo è sempre stato. E ancora di più in questi anni lo è diventato. Un cittadino contaminato, più internazionale che italiano. Abitatore con le antenne tese di un territorio dove un tempo gli imprenditori e gli artigiani si chiamavano Rossi e Brambilla, e ora si chiamano in maggioranza Hu e Ahmed. Cinesi ed egiziani (dati della Camera di commercio). E dove la massa critica delle attività di finanza e tutte le grandi operazioni immobiliari realizzate o in corso d’opera parlano lingue straniere. Milano non è più la “capitale morale”, perché non le interessa più esserlo. E’ un posto altrove, rispetto al resto del paese. E’ un caso interessante, per la classe dirigente quarantenne che s’è presa in mano l’Italia. Non tanto per il banale “come andranno per Renzi le elezioni”. Ma perché Milano è lo specchio di quel che dovrebbe diventare l’Italia: con i confini molto più a nord, in Europa.

 

Oggi Claudio Cerasa intervista i due candidati, che si troveranno faccia a faccia per la prima volta. Sul nostro sito la diretta streaming dalle 17 con Radio Radicale

 

“Milano ha una sua storia, e alla fine questa storia vince sempre. Chiunque la governi, Giuliano Pisapia o Letizia Moratti, Beppe Sala o Stefano Parisi, alla fine vince Milano, con il suo Dna. E’ proprio una bella sfida”. Parole che suonano come un’ouverture, e del resto Andrée Ruth Shammah, regista e organizzatrice del teatro, cresciuta e vissuta nella Milano di un riformismo di sinistra “ma eretico”, sarà la padrona di casa del workshop-intervista con Beppe Sala e Stefano Parisi – è la prima volta che i due si troveranno faccia a faccia – che il Foglio ha organizzato per questo pomeriggio al Teatro Franco Parenti. (Che, detto per i non milanesi, è per l’appunto l’ex Salone Pier Lombardo, il teatro che fu di Franco Parenti e di Giovanni Testori, di una cultura eretica e creativa, e che ancora è la casa di André Ruth Shammah).

 


Il teatro Franco Parenti (foto LaPresse)


 

“Milano è una città riformista e moderata, i milanesi sanno che si gioca sempre ‘per Milano’, mai contro”, dice la regista. “Oggi mi sembra che una delle cose che chiedono i milanesi è che non si perda una certa ‘qualità della vita’ che la città ha conquistato. Milano non è mai stata famosa per questo, o per la sua piacevolezza o la bellezza. Ora invece lo è diventata. Deve continuare a migliorare. E i milanesi guardano a due candidati che sanno interpretare questo Dna. E’ un bell’impegno”. Da Milano non se ne va più nessuno. Un’occhiata storica alle ricerche demoscopiche certifica che negli anni 90 (èra post Tangentopoli) sette milanesi su dieci volevano abbandonare la città. Oggi la percentuale è di tre su dieci. E quei tre, di solito, vorrebbero andare all’estero, non in campagna ad allevare caprette. Un cambio di percezione sul lungo periodo che ha pochi eguali in Europa. Nessuno in Italia. Cosa si aspettano dal prossimo sindaco, questi 900 mila milanesi maggiorenni che andranno al voto il 5 giugno?

 

Alessandra Ghisleri è direttrice di Euromedia Research, istituto di ricerche demoscopiche. Sfoglia sul computer le risposte appena giunte dell’ultimo rilevamento effettuato su Milano. Non per sapere chi vince o chi perde, “è ancora troppo presto, la gente non ha ancora focalizzato il problema della scelta. La campagna elettorale è ancora in una fase distratta, per i cittadini”. Le domande di Euromedia Research puntano a tracciare un profilo psico-attitudinale (diciamo così) dei milanesi, di cosa pensano della città e quale primo cittadino vorrebbero scegliere. 

 

Concetti semplici, sentimenti tendenzialmente univoci, per elettori “comunque disincantati, che giudicano i fatti e sanno attribuire i meriti: sanno ad esempio che la grande trasformazione di Milano non è nata solo dall’Expo, è iniziata dai progetti delle giunte precedenti”. E comunque, sentimenti come: “Speranza, ottimismo, grande attesa per il futuro, orgoglio di fare parte della città, poche e niente recriminazioni da antipolitica”. Milano? “E’ una città che sta marciando, nel 2015 il suo pil è stato superiore a quello di Berlino o Barcellona. L’effetto ottimismo è visivo: “I cantieri aperti, le grandi opere, che spesso in altre città sono assimilate al disagio e al sospetto del malaffare e della cattiva gestione pubblica, sono percepite nella grande maggioranza degli intervistati come un motivo di orgoglio. In generale, Milano è percepita come un ‘incubatore di successo’. E’ una ‘terra delle opportunità’, soprattutto per i giovani e chi arriva da fuori. Ma in realtà non esiste il ‘milanese’, in una città molto stratificata per provenienze. Non c’è campanilismo.

 

Ciò che accomuna è il sentirsi ‘ambrosiani’, nel senso di un insieme di valori, regole condivise, stili di vita. Che vanno oltre i confini urbani. Ci si sente milanesi anche se si vive nell’hinterland, non c’è differenza di percezione tra residenti e ‘city-users’. Questo significa che la Città metropolitana esiste già nei fatti e nella consapevolezza”. La demografia, con tutte le sue sofferenze (Milano è anche la città in cui ci si sposa meno in Italia, anche per i matrimoni religiosi), aiuta a capire: 600 mila donne, il 53 per cento della popolazione. I giovani (18-24 anni) sono poco più di 80 mila, mentre il 60 per cento della popolazione è tra i 25 e i 64 anni, significa che la fascia della “gente che lavora” è maggioritaria. Quale sindaco vorrebbero, allora? Ghisleri sintetizza le risposte ottenute: “Non è importante il ‘chi’, contano i temi. Ovviamente onestà e controllo etico sono in cima alle risposte. Ma poi, per le donne, gli aggettivi dicono: pragmatico, rassicurante (tema della sicurezza), che ispiri vicinanza, protezione, comprensione dei problemi. Gli uomini aggiungono: visione del futuro, consapevolezza di guidare una città-ponte verso l’Europa. In ogni caso, non è l’idea del leader carismatico, o politico”.

 


Stefano Parisi e Giuseppe Sala (foto LaPresse)


 

Destra e sinistra? “A destra prevale l’idea di un sindaco che sia ‘uno di noi’, più leader. A sinistra, che sia ‘rassicurante’, tratti quasi da padre”. L’impressione è quella di un elettorato poco politicizzato, pragmatico fino all’empirismo, tendenzialmente moderato. Laddove bisogna intendersi. Come diceva il buon Mino Martinazzoli, con la sua intelligenza caustica, a proposito dei centristi post democristiani: “I moderati non esistono in natura. Piuttosto esiste la moderazione, che è la virtù di temperare i punti di vista, gli scontri, e condurli verso soluzioni condivise, senza forzature”. Secondo Alessandra Ghisleri, contano molto la tradizione politica del riformismo ambrosiano – sia quello della sinistra socialista sia quello cattolico-ambrosiano; ma ci sono alcuni tratti che delineano, anche al di fuori della politica, il senso di una community compatta: “Se riflettiamo sulla quantità di bocconiani che occupano posti di rilievo nazionale, o di manager e amministratori di ‘scuola McKinsey’, scopriamo che c’è una milanesità diffusa e che conta nel paese, che ha in comune stili, modi di operare, riferimenti culturali e internazionali. Poi Milano è una città che a fronte di cinquanta istituzioni pubbliche ha più di seimila istituzioni no profit private, attive in ogni settore. Ha una dinamicità e una tradizione che superano la politica”.

 

Mario Abis ha fondato più di trent’anni fa a Milano l’istituto di ricerca Makno, orientandosi sempre ad analisi complesse, non solo statistiche, di medio periodo delle realtà sociali. Anche lui ha dei carotaggi recenti, oltre che una lunga esperienza personale, sulla città e i suoi “fluidi” abitatori. Anche Abis rileva che il clima psicologico generale è molto favorevole, addirittura ottimista. Ma aggiunge un aspetto importante: “Spesso si fa discendere il buon umore della città, e i suoi cambiamenti anche d’immagine dall’Expo. Ma Expo, pur nelle cose strutturali e importanti che ha generato, è stata una conclusione di un processo più ampio. In realtà, guardando i dati economici e sociali, si vede che la città ha iniziato a cambiare molto prima: a partire dalla crisi del 2008-2011.

 

Può sembrare paradossale, ma lo smarcamento di Milano dal resto del contesto italiano (quasi tutto il contesto italiano), nasce negli anni più duri della crisi economica. Quando la città, pur con le difficoltà ovvie, ha iniziato a chiedere e darsi risposte adeguate al nuovo contesto. Non ha mollato, non ha recriminato – lo dicono le analisi sociali – e ha cominciato a cambiare. Milano, come altre volte in passato, ha iniziato a pensare ‘che ce la fa anche senza la politica’”. Così è frutto di quella reazione la consapevolezza che oggi Abis riscontra nel cittadino milanese medio – in quella vasta area fluida, che un tempo veniva definito ceto medio e invece oggi è “una struttura complessa, stratificata, che si diversifica per tipo di professione, per fasce d’età, per settori economici”. Secondo Abis, i tratti sono due: “Una forte richiesta di sviluppo, quindi di un modello per il futuro. Con una necessità di liberare energie, di far partire attività e opere pubbliche davvero paragonabile a quella degli anni Sessanta. Il secondo aspetto è l’idea di una città che ce la fa da sola. In cui la politica non solo conta meno, ma soprattutto deve essere semplicemente ‘conseguente’ a ciò che fa e chiede la città”.

 

“Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?”
(Giorgio Gaber, 1994)

 

E qui, conviene spostare un po’ il punto d’osservazione e, dalla psicologia e dalle attese del milanese fluido, internazionale, ottimista e professionalmente nomade, passare a parlare di politica. O meglio, dice Abis, di fase post politica. E a questo punto Milano diventa interessante anche come test nazionale. Alla vigilia non solo delle Amministrative, ma anche o soprattutto del referendum d’autunno sulle riforme istituzionali, l’Italia appare divisa tra un tentativo-progetto per una nuova fase politica (o per una nuova politica tout court, ma quello si vedrà) e una spinta antipolitica e antisistema che, perlomeno nei sondaggi, rimane a livelli di guardia preoccupanti. Milano – città da cui sono partite nella storia italiana varie “rivoluzioni”, e spesso ondate in qualche modo violente per la storia nazionale: dal fascismo agli Anni di piombo alla rivoluzione manettara di Tangentopoli – è una città che ha nel proprio Dna un basso tasso di antipolitica.

 

Una città dove la Lega nord di Umberto Bossi, nemmeno negli anni d’oro, è riuscita a sfondare, così come non riesce oggi alla Lega 2.0 e lepenizzata di Matteo Salvini. E dove anche il Movimento cinque stelle di Beppe Grillo (e del milanesissimo Gianroberto Casaleggio) ha meno appeal che non in altri luoghi. Il candidato prescelto (con metodo bizzarro, ci sarebbe da dire) per le comunali, Gianluca Corrado, staziona su un 15 per cento delle intenzioni di voto lusinghiero, ma molto al di sotto degli standard nazionali. In più, ci sarebbe da notare che trattasi di grillino anomalo, è un avvocato, non è un urlatore professionale, somiglia più alla community a metà tra business e mondo delle professioni che è il bacino di pesca preferito della politica meneghina. Infine, ha questo tratto che lo rende molto “milanese”: che milanese non è, è siciliano ed è giunto al nord già maggiorenne. In ogni caso, non è il tratto distintivo dell’antipolitica sfasciacarrozze ciò che farà crescere il movimento grillino in città. Milano non è dunque, spiegano osservatori e sondaggisti, una città dell’antipolitica. Secondo Ghisleri, secondo Abis, dire però che la faccenda sia riducibile alla generale de-politicizzazione della società italiana (Gaber l’aveva già scolpito in musica ventidue anni fa) è riduttivo e non spiega tutto. Che destra e sinistra siano sbiadite e sostanzialmente intercambiabili nei loro tratti riformisti e moderati è un fenomeno planetario, non ha bisogno di spiegazioni. Il fenomeno Matteo Renzi, e l’ipotesi generale di un “partito della nazione” è pure sotto gli occhi, ci torneremo poi.

 

“In realtà ciò che sta accadendo a Milano, e sta accadendo però meno, o niente del tutto, in altre città”, ragiona Mario Abis, “è che siamo in una fase post politica”. Una fase in cui anche il vecchio aforisma di Deng sul gatto nero o rosso, basta che acchiappi il topo, appare superata. “Per il cittadino-elettore milanese, come lo abbiamo tratteggiato finora, la politica è semplicemente una funzione sociale – condivisa, con delle regole, eccetera – che deve declinarsi in quella che è la natura della città. Deve essere al servizio di una città che sa fare da sola, e deve fare da sola, e che chiede solo una funzione facilitante. Di controllo, di legalità, di regole: questo è ovvio. Ma soprattutto di disponibilità a sostenere il percorso dei cittadini”. Che non è, meglio chiarirlo, soltanto un problema legato al business, piccolo o grande, o di interesse generale, della “città che lavora”. Sono le esigenze anche private, normali dei cittadini: dal modo di gestire i servizi, all’accessibilità alle reti di macrodati, alla velocità di risposta della macchina burocratica pubblica.

 


Una veduta di Milano


 

E’ a questo punto che si pone la fatidica domanda: ma allora, che tipo di sindaco vogliono, i milanesi. Le risposte della Makno di Abis rispecchiano e un po’ approfondiscono quelle emerse dalle risposte di media Research di Ghisleri: “Non deve essere un politico vecchio stile, ma non basta che sia un ‘manager’. Perché, per quanto manager, non deve essere innanzitutto ‘arrogante’. Non deve essere verticistico, non deve essere l’uomo solo al comando. Quello che gli si chiede, più che la capacità di mediazione (caratteristica percepita come ‘politica’, ndr) è la capacità di ascolto, di fare sintesi”. C’è una parola, però, che suona nuova e forse è davvero la parola chiave, in questa descrizione: “Consecutivo”. Il sindaco ideale di una città post politica deve essere “consecutivo” alla sua città. Cioè deve saper trarre le conseguenze di quelle che sono le richieste di sviluppo, cambiamento, e diventarne l’interprete creativo. Non quello con la ricetta magica, ma quello che va nella direzione scelta. L’altra caratteristica che viene apprezzata è la “finezza del candidato”. Che ovviamente non sta soltanto per buona educazione, ma per una attitudine riflessiva, intuitiva, che sappia cogliere le esigenze e i contributi di tutti. “Da questo punto di vista”, dice Abis, “e confrontandola con i segnali che emergono da analoghe ricerche in altre città, Milano è una città ‘avantissimo’, nel senso di avanti un paio di decenni, molto diversa da altre. Che ragiona sulla sua amministrazione in chiave molto più europea. Quella è la sua dimensione”.

 

Una dimensione che dovrebbe far riflettere (non dubitiamo che stia facendo riflettere) anche i politici di livello nazionale che si specchiano, osservano, competono su quella complicata, morbida ma anche spigolosa scacchiera che è questa città. Negli anni 90, il “vento del nord” del nuovo centrodestra berlusconian-leghista partito proprio da qui aveva in sé una componente di risentimento verso la politica “romana”, verso ritmi e riti della partitocrazia nazionale. C’era una componente antisistema, una richiesta di cambiamento, che come tutti sappiamo è andata poi abbondantemente delusa. Da questa Milano, parte un segnale diverso, non “anti” ma “post”. E’ una città che è lontana mille miglia dai ritmi politici nazionali, che quando ragiona per decidere guarda a modelli internazionali. Non chiede astrattamente soluzioni “federaliste” come un tempo, chiede soltanto soluzioni che funzionino. Non è un caso che, al momento, i sondaggi sul referendum costituzionale siano favorevoli al sì, e lo siano di più quando si sale nel segmento sociale: chi è abituato al mondo del business e conosce le regole internazionali, vuole cambiare quelle italiane e adeguarsi. Sono cose su cui dovrebbe riflettere Matteo Renzi, con la sua ambizione di cambiare anche e soprattutto la vecchia mentalità politica. E sono cose su cui dovrebbe riflettere il centrodestra (non staremo qui a sbilanciarci su chi lo stia comandando attualmente), perché proprio a Milano può recuperare molta di quella spinta riformista e semplificatrice che ne aveva fatto una forza politica vincente.

 

Chi siano Beppe Sala e Stefano Parisi, i due candidati della sinistra e del centrodestra che oggi si sottoporranno alle domande del Foglio, non serve starlo a riassumere. La leggenda metropolitana li vuole gemelli diversi, o proprio gemelli, due facce della stessa politica: due manager, due moderati, due ex direttori generali del comune di Milano (ma curiosamente: entrambi per amministrazioni di centrodestra). Per qualcuno, due temibili versioni di un identico “partito del Nazareno”. E’ forse più interessante notare che alcune differenze ci sono. Più duttile, più politico, Stefano Parisi, che vanta una lunga esperienza di collaborazione negli staff di Palazzo Chigi, e alla direzione generale di Confindustria; più aziendale Beppe Sala, che pure ha avuto nella guida dell’Expo la prima vera esperienza di “lavoro di mediazione” e relazione fra entità differenti ed esigenze difformi. Ma oltre a questo, ci sono due interrogativi politici che oltrepassano i confini della città di Milano. Sala è il candidato prescelto da una sinistra riformista, anche se non soltanto o strettamente renziana.

 


Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi (foto LaPresse)


 

Ma la scommessa fatta su di lui (tramite lui) è più ampia. Milano – e la Lombardia più in generale – è una terra in cui negli ultimi vent’anni la sinistra (Pds-Ds-Pd) è stata minoritaria e sconfitta non nel voto dei ceti medi e popolari (a volte anche). Ma soprattutto nel mondo delle professioni, delle attività produttive e finanziarie, nei giovani “internazionalizzati”. In una parola in quel ceto medio “affluente” (si diceva così) che forma la classe dirigente, gli opinion-maker e soprattutto i grandi decisori strategici. Quel tipo di pubblico, per vent’anni, a Milano ha scommesso su un centrodestra che è stato (anche, non solo) l’erede del riformismo craxiano e del migliorismo ambrosiano. E quella scelta di campo era fatta contro l’immobilismo ideologico delle sinistra (“se c’è un aspetto positivo di Sala è che non è un dipendente della Cgil”, ci dice un assennato manager meneghino, addentro alle cose milanesi ma non schierato politicamente). Se c’è un risultato che Matteo Renzi ha ottenuto a Milano nel giro di tre anni è di aver spostato quegli equilibri. Non che tutto il Pd meneghino sia “suo”, ma è un fenomeno sotto gli occhi di tutti il fatto che un circolo del Pd di nuova formazione, quello della Pallacorda, espressione punto di aggregazione del renzismo più puro, sia diventato in poco tempo il secondo circolo per importanza a Milano. Beppe Sala è dunque la scommessa che quel riformismo della sinistra, con le sue anime storiche e le sue nuove componenti, possa avere la meglio.

 

La scommessa di Stefano Parisi, e anche lui come il suo avversario preferisce tenere un profilo basso su queste proiezioni di carattere universale, è diversa ma simile. La sua scelta ha ridato unità e una prospettiva che parevano perdute a un centrodestra “moderato” sì (col benestare di Martinazzoli), ma soprattutto riformista. Liberalizzatore, modernizzatore, che ha come sua stella polare l’idea di “ridurre il perimetro della macchina pubblica” per dare più spazio all’iniziativa privata. E che considera l’efficienza come la chiave di riduzione della pressione fiscale (a Milano, con la giunta Pisapia, è aumentata in modo eccessivo). Il modello di Parisi è, si sa, quello di Gabriele Albertini, primo sindaco-manager di Milano di cui oggi tutti riconoscono il buon lavoro. In questo senso, la prospettiva di Parisi, più ancora di quella di Sala, è davvero “post politica”, nel senso delineato più sopra. Anche perché Sala (il suo sponsor Matteo Renzi magari no, ma Renzi non è di Milano) deve far coincidere i suoi programmi su una cultura del “pubblico” e del controllo molto più pesante, e ancora molto radicata nella sinistra.

 

Ora che abbiamo conosciuto i milanesi, ora che abbiamo conosciuto i candidati, non resta che chiedersi di che cosa abbia bisogno Milano. Perché quel che serve a Milano è un segnale di quello che serve all’Italia. E tocca partire dalla famosa “continuità con Pisapia”, un mantra che Beppe Sala sarebbe forse più contento di non sentire. In un libro analitico ma un po’ encomiastico di qualche anno fa dedicato alla “rivoluzione gentile” di Giuliano Pisapia si scriveva che “il successo di Pisapia è stato determinato da un voto di appartenenza: non l’appartenenza a un partito o a un’area politica rigidamente intesa. Piuttosto l’appartenenza a sistemi di valori che si sono avvicinati… I toni, i modi, i valori di Pisapia lo hanno fatto coincidere con lo sguardo e le attese di elettori che avrebbero potuto votare altrove”. Disegno piuttosto oleografico, ma che coglie qualcosa di vero dell’intenzione di voto del milanese medio depoliticizzato – o per meglio dire empirico. Si può soltanto dire che, cinque anni dopo, quell’attitudine al voto fluido si è accentuata. Poi c’è qualcuno, che non è un politico ma la città conosce molto bene, che con meno poesia ritiene che Milano esca invece dalla “gestione pilatesca e conigliesca di Pisapia”, che ha usato solo tecniche di rinvio su tutte le maggiori partite della città.

 

L’elenco è secco, non staremo a dettagliarlo, ma si spiega da solo: il dopo Expo, situazione tuttora aperta, e su cui permane una grossa conflittualità tra le idee del governo e quelle delle istituzioni milanesi; la quotazione-cessione di Sea e di altri gioielli delle partecipate, unico vero polmone per i futuri bilanci; il futuro di enti come la Scala; il futuro di aree pubbliche strategiche come l’Ortomercato; infine gli ex scali ferroviari, l’ultimo autogol della giunta arancione. Così che il futuro inquilino di Palazzo Marino avrà parecchie incompiute da affrontare, e partirà già in ritardo. La lezione nazionale, in questo caso, riguarda il grado di autonomia decisionale e di snellezza delle procedure per fare ciò che tutti, a parole, vorrebbero vedere fatto subito. E, da questo punto di vista, qualche sottile ma importante differenza tra Parisi (vocazione più autonoma) e Sala (più propenso a tener conto del ruolo nazionale) esiste. Non ultimo, sul fronte delle capacità di autogoverno, c’è il problema del sistema di controllo. I milanesi ci credono, alla trasparenza. Ma credono un po’ meno alla leggenda del santo commissario, cioè che per sanare ogni magagna e controllare il flusso di ogni centesimo basti nominare un Dottore Cantone, come ha fatto Renzi per l’Expo, e risolvere tutto. Ci vogliono regole, confini, assunzioni di responsabilità. Milano è del resto una città in cui la giustizia (e il Palazzo di giustizia) hanno un ruolo storicamente importante. I milanesi non voteranno di certo il base alla scelta (imminente) del nuovo procuratore generale di Milano e alle sue sottili implicazioni esoteriche. Ma il capoluogo lombardo è anche la città in cui si stanno tessendo le trame economiche e finanziarie decisive per il futuro del paese, basti pensare al Corriere della Sera e ai suoi intrecci bancari. Cose che esulano dalla politica amministrativa; ma che rendono più evidente la necessità di avere strumenti politici adatti a tenere il ritmo – sempre accelerato e a tratti sincopato – della metropoli.

 


Il grattacielo dell'Unicredit Tower


 

Ma è il momento di tornare con i piedi per terra, alla concretezza della città e della politica. Un riformista di sinistra esperto, e già sindaco della città nell’età di mezzo tra Prima e Seconda Repubblica come Giampiero Borghini, ama ripetere che a Milano le idee per vincere nascono in centro, ma poi i voti per vincere si prendono in periferia. E allora bisognerebbe ricordarsi che – città circolare per antonomasia – Milano è costituita da centri concentrici. La cerchia del centro conta 80 mila abitanti. La cerchia della città compresa nelle mitiche circonvallazioni (il vero confine metropolitano interno) ne conta 450 mila. Il resto, 650 mila persone, vive nelle periferie sorte dal Dopoguerra in poi. Giuliano Pisapia vinse cinque anni fa prendendo più o meno gli stessi voti con cui la sinistra perse la sfida precedente contro Letizia Moratti. Fu la Moratti, nel 2011, a perdere per strada oltre 180 mila voti. E li perse quasi tutti in periferia. Non è un caso che Beppe Sala sia partito dai quartieri periferici per la sua campagna; non è un caso che Stefano Parisi sappia di dover recuperare lì i voti persi dal centrodestra negli scorsi anni.  Poi, tutti e due, dovrebbero ricordare che, secondo le stime, nei prossimi quindici anni i milanesi di origine straniera aumenteranno dagli attuali 240 mila a oltre 400 mila, secondo le stime più prudenti. E abiteranno per la maggior parte nelle grandi periferie e nei comuni della Città Metropolitana (questa sconosciuta). E con la loro presenza aumenteranno anche gli Hu cinesi e gli Ahmed egiziani titolari di attività economiche (metà delle imprese egiziane in Italia sono a Milano, poco meno di seimila; nel 2014 le imprese milanesi con titolare straniero erano  38 mila). Ma saranno anche quelli, si sa, milanesi che chiedono alla post politica la soluzione dei problemi e una logica di moderazione riformatrice. E’ per questo che il test elettorale di Milano è così importante a livello nazionale. Perché sarà l’affermazione di un modello italiano differente di fare politica, di amministrare.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"