Marco Pannella (foto LaPresse)

Marco, uno e centomila

Con Pannella cominciammo come un gruppetto di inesperti. Poi le vittorie

Angiolo Bandinelli
Tutto cominciò di lì, da quel gruppetto di inesperti – un paio di professori, un paio di giornalisti, un avvocato, un farmacista, un piccolo imprenditore, una maestra – è nato il divorzio e quanto ne è seguito. Ma ci guidava lui, Marco, e tutto è divenuto possibile, come oggi (solo oggi) si riconosce.

Se ne è andato. Mi pare impossibile, ma Marco Pannella se ne è andato. Mi pare impossibile perché per più di sessanta anni la mia vita si è intrecciata alla sua, e pochi momenti ho concepito e vissuto senza di lui, la sua presenza. Anche quando non mi occupavo di partito, di vicende radicali, anche quando ni ritiravo in mé, negli altri miei interessi, lo sentivo vicino, il mio dialogo con lui era costante. Sono quello che sono per quello che lui mi ha dato, forse anche per il qualcosa, il poco che posso avergli dato. Ora se ne è andato, non lo avrò più come interlocutore o guida. Lo conobbi a Piazza Fontana di Trevi, nella sede del Movimento Federalista, o forse anche nelle stanze del Partito Liberale Italiano. Ma decisivo fu un casuale incontro che ebbi con lui, a mezzanotte o giù di lì, a Piazza di Spagna. Abitavo allora da quelle parti e la sera, o anche di notte, uscivo a passeggiare. Una notte, appunto, lo incontrai, ci conoscevamo da poco, non aveva particolari motivi per fermarsi con me. La chiacchierata durò molto a lungo. Poco dopo mi dissi che quel Pannella era un personaggio straordinario e che dargli una mano poteva essere interessante: un paio di anni, più o meno. Io non volevo fare carriera, mi piaceva inseguire i miei interessi, ero curioso di capire cosa diavolo fosse la politica.

 

Seguirono anni fervidi, fui trascinato in una vicenda che si faceva di giorno in giorno più avvincente. Assieme a Gianfranco Spadaccia e a Giuliano Rendi ricevevamo da Parigi, dove lui lavorava come  giornalista al Giorno, lunghe, minuziose lettere nelle quali ci spiegava quello che dovevamo fare. Noi ci dividevamo i compiti. Io ero il meno bravo, mi impratichii di tipografie e di stampa. Redigevo quello che fu il primo foglietto “pannelliano”, “Sinistra Radicale”. il partito era ancora quello di Pannunzio, noi eravamo, appunto, la “sinistra”. Poi, d’un tratto, ci piombò sulle spalle il carico di tutto il partito, che la sua classe dirigente aveva abbandonato a se stesso. Affittammo una sede, che Marco volle di undici stanze, comperammo un ciclostile. Quelle stanze diventarono, pian pian, luogo di incontro, sede di dibattiti o solo rifugio di chiunque avesse qualcosa da dire o voglia di ascoltare. Gli anni passavano, ben più di due.

 

Ma tutto cominciò di lì, da quel gruppetto di inesperti – un paio di professori, un paio di giornalisti, un avvocato, un farmacista, un piccolo imprenditore, una maestra – è nato il divorzio e quanto ne è seguito. Ma ci guidava lui, Marco, e tutto è divenuto possibile, come oggi (solo oggi) si riconosce. Più volte mi hanno chiesto di scrivere una sua biografia, io credo sia impossibile scriverla, la vita di Marco è stata così ricca e varia, così movimentata che solo per redigere una lista significativa e veridica delle sue attività occorrerebbe un mucchio di tempo, anni. Mille attività, ma sorrette da un solo e unico pensero, un’unica passione divorante, la politica. Diceva spesso che solo la “narrazione” poteva rendere la verità profonda della politica, perché in fondo “teoria” significava, nella sua etimologia greca, “sequenza”: sequenza di fatti. Un po’ ha prodotto storia, un po’ la storia ha prodotto lui. E’ stato infatti contemporaneo della esplosione dei grandi movimenti per i diritti civili degli anni sessanta, quelli di Berkeley, di Martin Luther King, della emancipazione delle minoranze, i neri o le donne o gli omosessuali. Da quegli anni è nata una antropologia globale che non ha ancora dispiegato tutte le sue possibilità e richieste, l’uomo di domani è oggi ancora un apolide, un senza patria, di cui si comincia appena a delineare l’identikit.

 

E Pannella, che questo processo intuiva (direi, “fiutava”) si persuase presto – se non subito – che l’uomo di domani avrà un bisogno essenziale di “diritto”, di legge, di conoscenza. Eravamo un po’ snobbati, all’epoca del divorzio, da quanti si spendevano attorno alla programmazione economica, declinata nelle sue varie forme. Tenemmo duro contro tutti costoro, il diritto civile al divorzio è stata una pietra miliare nella storia del paese. Lui, con la sua nomea di anticlericale, disse, il giorno del referendum del 1974, che quella era una vittoria di tutti, ma soprattutto delle donne cattoliche e missine che avevano serenamente votato per il divorzio, contravvenendo a ingiunzioni e ammonimenti. Non meno intensa fu la stagione dei referendum. Grazie ai quelli (e solo grazie a quelli) milioni di italiani poterono scegliere, con il loro voto, intorno a temi che solitamente erano riservati a una piccola élite. Si proclamava liberale, libertario e socialista. I teorici più schizzinosi storcevano il naso, lui con i fatti ha saputo coniugare le tre istanze, farne qualcosa di unico e, temo, di irripetibile. Ma sul suo lascito ben altro si potrà, e si dovrà dire.

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