Dalla Regina Elisabetta a Pannella, la comunicazione in politica funziona quando è un “gesto completo”
Una cerimonia tardo medievale dai contorni grandiosi in uno Stato ultra-moderno, capitale finanziaria di un mondo connesso ad alta tecnologia, campione di produzioni avveniristiche di intelligenze artificiali, di offensivo bellico imponente ed utilizzato, nonché di diritti umani e disumani (ricordiamo che l’utero in affitto in Inghilterra è legalizzato e gli immigrati di stanza a Calais proprio non li vogliono).
Perché c’è ancora una cerimonia del genere, a che cosa serve tutto questo copione e questo sfarzo? (Peraltro scarsamente condannato dai soliti pauperisti a intermittenza). La conclusione è che serve a molto, che forse ce ne vorrebbero di più anche da noi e che in ogni caso i politici hanno molto da imparare.
E’ questione di segni e vorrei provare a spiegarla. Provate a raccontare a parole quanto sia importante lo Stato e la Costituzione e quanto sia decisiva la responsabilità morale e civile di ciascuno. Vi renderete conto presto di quanto rischi di essere noioso tutto questo e di come si faccia in fretta ad assumere toni moralisti, che fluttuano tra l’aria di scetticismo dei vostri ascoltatori e quella interiore di voi stessi. Mettete i cavalli bianchi, le corone scintillanti, un po’ di teatro storico e, allora, persino il noioso discorso della Regina che elenca punti risaputi che avete evitato di leggere al mattino sul giornale saranno guardati con attenzione in televisione o sul web.
Dal punto di vista dei segni, i discorsi ne presentano solo uno, le nostre parole, che sono simboli. Ma essi da soli non riescono a trasmettere tutta la pregnanza vaga ma piena di significato che c’è nell’idea di Stato o di Costituzione. La politica è fatta anche di passione e per questo i simboli non bastano. Ci vogliono anche altri tipi di segno, come le cariche, i nomi, le azioni e le frasi ripetute ogni anno. Sono indici, segni che ci ricordano chi è chi e a cosa si appartiene. A questo servivano – e da loro servono – i titoli nobiliari. E poi, soprattutto, ci vogliono colori e suoni, luci abbaglianti, rumori e silenzi che servono per incarnare la passione e la sacralità. Insomma, per raccontare un significato, occorrono “gesti”: le cerimonie sono azioni che portano tutti questi tipi di segno insieme e, con questi segni, portano un significato. In questo caso, l’idea di Stato e quella di responsabilità, la propria storia e i propri valori. È più facile credere alla propria nazione quando è incarnata da una Regina scintillante (anche a 90 anni) portata da cavalli bianchi.
Non è un caso che l’iper-moderna, multiculturale Inghilterra preservi questi riti e che sia quest’Inghilterra a reagire nel modo più forte alla perdita di sovranità che l’Europa comporta. Ora, a prescindere dal loro nazionalismo, la durata di questo tipo di riti (vale anche per il repubblicano discorso sullo Stato dell’Unione negli Usa) testimonia che la comunicazione politica vincente è sempre stata più un “gesto” che un discorso. Purtroppo, ne sono stati ben consapevoli tutti i regimi novecenteschi che hanno utilizzato cerimonie imponenti per far passare i loro messaggi ideologici. Tuttavia, è bene non dimenticarlo e non aver paura di questa completezza di comunicazione, che comprende pensiero e azione, parole, immagini e suoni. Occorre non dimenticarlo mai sul piano pubblico – dove forse non val la pena risparmiare sulle cerimonie – e occorre che non lo dimentichino i singoli politici che devono pensare alla comunicazione come a un “gesto completo” piuttosto che come a discorsi (simboli), o ad annunci e leader (indici), o a pure immagini (icone). Pannella l’aveva capito benissimo inventando gesti di grande efficacia dallo sciopero della fame alla distribuzione televisiva dell’hashish, e forse l’ha capito anche Grillo. Chi riesce a concepire la comunicazione politica come gesto non è detto che vinca, ma di certo ridesta dall’apatia tanti che, per l’appunto, non ne vogliono più sentir parlare.