Marco, uno e centomila
La sua voce lo precedeva, e faceva già capire tutto
“Vai all’Ergife, al congresso radicale, e fammi delle cronachette. Ma prima informati”. Questo era stato il mandato del direttore, non a torto convinto che l’aspirante cronista, in quell’anno d’inizio millennio, e nonostante i mesi già trascorsi come stagista, non fosse molto addentro agli affari di Torre Argentina. E dunque, dopo l’esortazione-ordine, ci si era messi ad ascoltare intensivamente Radio Radicale. E si era scoperto che Pannella non era “il corpo di Pannella”, che pure sempre compariva sui giornali come “parte per il tutto” per via degli scioperi della fame e della sete. E non era “storia di Pannella”, anche se di quella storia si era sentito a lungo parlare nelle famiglie libertarie e postcomuniste che dei referendum su divorzio e aborto avevano fatto un’autoepopea. E sì, di Pannella era impossibile non aver letto nulla, da quando si era cominciato a leggere i giornali: e le carceri e i diritti e le popolazioni oppresse in enclave sconosciute pure al mappamondo, e i suddetti digiuni (con i presidenti della Repubblica o i Papi che intervenivano quando il limite della sopravvivenza stava per essere superato) e i cosiddetti “compagni radicali”: giovani e vecchi “pazzi che volevano cambiare il mondo”, così almeno li chiamava lui, Pannella.
Dicevi “Pannella” e questo ti veniva in mente, solo che non era lui. Lui, si scoprì quel giorno dopo cinque ore di ascolto-radio, era una voce. La sua. Voce che veniva prima di tutto e significava tutto e dava finalmente credibilità a quella che, in seconda media, era sembrata una leggenda: “I radicali parlano ore di fila, anche otto-nove-dodici-quindici ore, per fare ostruzionismo”, aveva detto la professoressa, raccontando di quegli strani personaggi capaci di discorsi lunghi un tempo inimmaginabile. E quella di Pannella poteva ben essere voce ostruzionista: arrivava come un terremoto, interrompeva lo speaker, spezzava il ritmo, lo ridava, sbaragliava un tema, ne riportava in vita un altro. Mai uguale a se stessa, faceva indovinare il resto: voce tonante (di pomeriggio: umore alto), voce con tosse (al mattino: umore fosco), voce gracchiante (a qualsiasi ora: per prendere in giro), voce suadente (per blandire a distanza: un politico, così pareva, ma poi si capiva che era rivolta all’ignoto milite radicale di una cellula del nord-Italia, che Pannella chiamava per nome).
Con gli anni si era appreso, per esperienza diretta e indiretta, che c’era anche la voce impertinente e la voce-sussurro e la voce pericolosamente scanzonata dei rimproveri giunti dalla padella del viva-voce, quando qualcuno, secondo Pannella, indulgeva in un ozio inconciliabile con l’emergenza-carceri d’agosto. C’era addirittura la voce pretesca – ossimoro per Pannella “strega laica”, come fu definito e si autodefinì su questo giornale – e la voce impaziente della domenica, da eterna lite con Massimo Bordin. Ma solo negli ultimi anni, da profani, era stato possibile notare la voce solennemente impertinente del Pannella che nella vecchiaia liberava il se stesso più bambino, giocando con le parole e chiamando in causa “Napolitano-Napoletano”, presidente emerito della Repubblica, per dirsi molto preoccupato per le popolazioni vesuviane: e se il vulcano erutta?, e se ilVesuvio s’incazza e “tre milioni di indigeni” vengono “inceneriti in poche ore”? E sempre la voce lo precedeva, quando ci si recava in via di Torre Argentina per qualche conferenza stampa: Pannella non era ancora comparso con la busta di plastica in mano e la cravatta comprata in qualche sperduto aeroporto extraeuropeo che già, fuori campo, da una situation room senza finestre, la voce allegramente cavernosa diceva: “’Tacci tua”. E poteva non dire più niente, ché si era già capito tutto.