L'antropologia dei cacicchi
Roma. E ovviamente si misurano con lo sguardo e si fanno le carezze, ma poiché si assomigliano, virili e guappeschi, intraprendenti e furbissimi, allora più spesso litigano, dunque rapidamente avvampano e rapidamente si spengono, a seconda del momento, dell’opportunità, dell’aria che tira e dell’umore che li domina. Così Luigi De Magistris, in cerca di rielezione a Napoli, prova a ricordare a Michele Emiliano i tempi della rivoluzione arancione, quando il presidente della Puglia lo definiva “una speranza per il futuro del paese”, quando ad accomunarli era “il guardare negli occhi la sofferenza delle persone”, prima che Emiliano cercasse senza riuscirci d’intercettare Matteo Renzi (“lo sostengo con ogni mia energia”), tutta una corrispondenza di sentimenti e d’ambizioni che s’interruppe, ma che forse si sta riallacciando, come sempre accade negli alterni rapporti tra questi principi meridionali del popolo, sindaci e presidenti di regione, diversi eppure uguali, tra Emiliano e il lucano Gianni Pittella, tra De Magistris ed Emiliano, e poi Vincenzo De Luca, Rosario Crocetta, Mario Oliverio… Non un partito, ma un’antropologia.
La Puglia, si sa, è la terra della taranta e delle astuzie levantine, mentre Napoli è la capitale del pensiero meridiano e dell’imbroglio inteso come ornamento barocco: e allora non è forse un caso che l’una sia governata da un pm in aspettativa da vent’anni, eletto laddove aveva indagato con grande clamore, mentre l’altra è governata da un ex pm che accusava i politici quando resistevano alla legge (ma che da politico ha accusato i giudici e ha resistito alla legge).
Animale dal fiuto fine, poco prima di abbandonare la toga, molti anni fa, Emiliano sganciò sui Ds e su Massimo D’Alema una serie di bombe a mano: “L’inchiesta sulla missione Arcobaleno è mia. Ho fatto arrestare quattro persone, ho perquisito la sede dei Ds, ho fatto rinviare a giudizio un loro deputato, ho interrogato in piena campagna elettorale Veltroni, Cofferati e Rutelli…”. De Magistris, non dissimilmente, aveva indagato la moglie di Clemente Mastella, quando Mastella era ministro della Giustizia, e usava allargare così tanto le sue indagini da renderle forse inoffensive, ma di sicuro molto rumorose: randellate, voglia di fare bufera, “di scassare”, rastrellando voti e disagio.
Così il pugliese ha tenuto per anni un manifesto di Che Guevara nello studio, come il napoletano ha sempre raccontato che “il mio mito è Che Guevara”. E mentre De Magistris s’imbroda: “Sono un enorme plusvalore”, “sono sicuro di essere stato un ottimo magistrato”, “sono bello, piaccio alle donne, è un fatto che sta lì, oggettivamente lo constato”, Emiliano invece si loda: “Nella mia vita ho fatto tutto quello che avevo promesso di fare. Forse ho culo. Ma ci riesco sempre”. Entrambi parlano come la strada chiede, e insomma abbracciano e baciano, si fanno vedere in giro per strada la sera, spingono e stritolano, sollazzano e imprecano, non soltanto contro Renzi (“cacati sotto” - “sei un venditore di pentole”), ma talvolta anche l’uno contro l’altro: “Non è possibile governare Napoli con un rapporto diretto tra leader e popolo”, ha detto Emiliano di De Magistris, una frase che tuttavia pronunciata da lui ha un effetto stordente. Condividono infatti spirito e grammatica, il loro è un lessico affollato di messianismi e miracolismi che sembrano riemergere da un’èra primordiale: sarà un caso che l’uno propone e l’altro ha invece quasi approvato (ma senza coperture finanziarie) una specie di reddito di cittadinanza, cioè un gettone, un gelato e un buffetto per tutti?
Ma come Emiliano è il gemello antropologico di De Magistris, così entrambi sono parenti sociologici di De Luca, di Crocetta, di Pittella, di Oliverio… e insomma di tutto quel mondo che a sinistra è prepitato nella maledizione del pittoresco, preda di quei demoni plebeisti, spesso clientelari, che sembrano inchiodare la classe politica del sud. Basta osservarli e paragonarli. Emiliano assomiglia a De Luca, e infatti proprio come De Luca è stato eletto presentando liste “all inclusive”, applicando cioè quel metodo da Partito della nazione che in teoria rimprovera a Renzi, ma che lui, super cacicco meridionale, ha sublimato, secondo la logica che un tempo De Gaulle illustrò con una frase illuminante: “Il potere non si conquista. Si arraffa”. E infatti il circo pugliese è pieno di trapezisti, saltatori all’insù, eccellenze del movimento carpiato, come d’altra parte anche il circo napoletano, dove il moralista De Magistris è fratello dell’immoralista De Luca (“devo difendere la mia immagine di carogna”). Non condividono soltanto la spavalderia da petto in fuori o il coraggio virile del guappo – e ovviamente tanto si assomigliano quanto non si piacciono: “De Luca è un Pinocchio”, “De Magistris? E’ un romantico frequentatore della procura di Salerno… Pinocchio sarà lui e sua sorella” – ma entrambi si sono difesi dalla stessa legge, la Severino, con la differenza che De Magistris, l’ex magistrato, ha spinto la propria dissipazione oltre limiti cui forse nemmeno Berlusconi si sarebbe accostato, chiamando cioè “melassa putrida” e “sistema criminale” lo stato che lo condannava.
Dunque ribellisti e moralisti a corrente alternata, tutti acrobati della politica, abilissimi e incredibilmente pieni di voti: conoscono la musica delle parole, i toni da alleviare e da inasprire, ora gravi ora acuti, i buffetti e le sberle da rifilare a quei nemici con i quali, tuttavia, si può sempre fare pace se conviene: Emiliano era con Renzi, ora è invece il suo principale avversario, ma domani chissà. E anche De Magistris prima voleva stare con Renzi e con il Pd, ma poi ha cambiato idea. Solo De Luca ha fatto il percorso inverso: prima chiamava Renzi poltronista (“dopo aver perso le primarie ha detto che non gli interessavano le poltrone. Poi ha contrattato cinquanta parlamentari per la sua corrente, altro che poltrone, si è fatto tutto il mobilio”), adesso invece l’agile De Luca firma con il presidente del Consiglio protocolli d’intesa sul mezzogiorno e gli sorride nei video trasmessi su Facebook.
E tutta questa è una commedia senza fine di furbizie e stratagemmi, trionfi localistici e vaghe ambizioni nazionali, pasticci e strepiti, sgrammaticature e neoborbonismi, interpretati da una classe politica che usa i partiti come un taxi: partiti come compagnie di ventura, potentati e feudi muniti di ponte levatoio, signorie che spesso diventano incontrollabili e sfuggono di mano persino ai loro boss sopra le righe. In questi anni a Napoli De Magistris ha buttato dalla finestra una montagna di assessori, licenziati su due piedi, e ha seppellito un partito, l’Idv, proprio come Rosario Crocetta ha trasformato la Sicilia in un permanente suk dentro il quale all’incirca ogni sei mesi si sfascia e si ricompone una giunta, si taglia e si cuce un assessorato dietro l’altro, o come Mario Oliverio tiene i fili dell’immobile e sempre instabile potere in Calabria: sei mesi per fare una giunta, nessun investimento, nessuna idea, se non quella di candidare, prima che si ritirasse, Lucio Presta, il boss degli agenti televisivi, a sindaco di Cosenza. Inazione. Inerzia. Ma una straordinaria, istrionica, capacità di tenersi comunque in piedi, con un rigore d’armonie acrobatiche, e poi con sortilegi, amuleti, confessioni, magie, sogni, reliquie, corporalità. Fu D’Alema a bollare il partito dei sindaci, nel 1997, con un indimenticabile virtuosismo lessicale: “E’ un accampamento di cacicchi”, cioè di capi tribù dell’America centrale. Ma questo dei capipopolo meridionali, che sono tutti di sinistra, oggi non è un partito, non riesce a diventarlo nemmeno quando queste figure eccessive si accordano tra loro com’era accaduto, per un breve istante, sul referendum contro le trivelle. No, non c’è nessun partito del sud. Esiste invece un’antropologia, un gruppo omogeneo per stile, attitudine, linguaggio, e capacità mimetica. Forse è peggio?