Emma Bonino e Marco Pannella a Largo di Torre Argentina nel 2014 (foto LaPresse)

I due modelli di leadership universale dietro i volti di Pannella e di Bonino

Sergio Soave

La differenza tra i due leader radicali nasce dalle loro diverse impostazioni del rapporto con la politica e con il potere. Pannella ha sempre pensato al ruolo radicale come quello di un lievito destinato a dare risultati attraverso l’influenza che esercitava sulle formazioni politiche esistenti. Bonino ha puntato anche sulla capacità operativa e gestionale all’interno delle istituzioni.

Era forse inevitabile – anche se un po’ sgradevole e voluto per di più da soggetti terzi – che persino durante la commemorazione di Marco Pannella di sabato scorso in piazza Navona si sentissero gli echi della contrapposizione tra la figura dello scomparso e quella di Emma Bonino. La differenza tra i due leader radicali, che negli ultimi tempi si era tradotta in una distanza anche fisica, nasce dalle loro diverse impostazioni del rapporto con la politica e con il potere, originariamente combinate in una specie di gioco di ruoli, ma poi inevitabilmente tracimata in una giustapposizione che confina con la contrapposizione. Pannella ha sempre pensato al ruolo radicale come quello di un lievito destinato a dare risultati attraverso l’influenza che esercitava sulle formazioni politiche esistenti. L’idea stessa della “doppia tessera” corrisponde a questa concezione, simile, se lo si può dire senza arrecare offesa a nessuno, alla tattica adottata a suo tempo dal cardinale Camillo Ruini, che puntava a realizzare una sorta di maggioranza di blocco costituita da esponenti di diverse forze politiche (dopo la dissoluzione del partito di massa cattolico) in grado di difendere le opzioni “non negoziabili”.

 

Questa tattica postula la rinuncia a una rappresentanza diretta all’interno del sistema politico, salvo incursioni legate a campagne personali, come quella lanciata proprio da Pannella per “Emma al Quirinale”. Bonino, a differenza di Pannella, ha puntato anche sulla capacità operativa e gestionale all’interno delle istituzioni, di cui ha dato dimostrazione come commissaria europea (e meno alla Farnesina), il che ha sottolineato le differenze di impostazione. A ben vedere, questa dialettica tra chi punta soprattutto a esercitare un’influenza (spesso sulla base di una concezione piuttosto integralista) e chi punta a partecipare alla gestione e alla realizzazione degli obiettivi attraverso i necessari compromessi non è una caratteristica di una sola formazione politica. E’ più la regola che l’eccezione, in Italia a fuori d’Italia. D’altra parte la stessa epopea risorgimentale è stata caratterizzata e persino determinata dalla contrapposizione tra l’integralismo profetico di Giuseppe Mazzini e la disponibilità al compromesso con la monarchia di Giuseppe Garibaldi sintetizzata nello slogan “Italia e Vittorio Emanuele”. Basta questo esempio a chiarire che non è affatto scontata la superiorità di un’impostazione sull’altra.

 


Marco Pannella (foto LaPresse)


 

Anche nelle formazioni moderate questa dialettica si è fatta sentire, com’è accaduto per esempio nel contrasto tra Alcide De Gasperi e Giuseppe Dossetti, o tra Luigi Sturzo e Giorgio La Pira. Nella sinistra questa contrapposizione ha assunto addirittura una caratteristica ideologica permanente, prima nella distinzione tra rivoluzionari e riformisti, poi nei “temperamenti” diversi che contrapposero per decenni nel Pci Giorgio Amendola e Pietro Ingrao. Capita persino che i ruoli vengano repentinamente scambiati e invertiti, come nell’attuale Pd, dove prima era Pier Luigi Bersani a rappresentare la più ampia disponibilità al compromesso (persino con i grillini) mentre Matteo Renzi si presentava come sostenitore dell’autosufficienza della vocazione maggioritaria, salvo poi, quando i rapporti maggioritari si sono invertiti, vedere Renzi costruire i compromessi necessari per governare e Bersani rivendicare una purezza della ispirazione di sinistra del partito. Lo stesso, peraltro, è accaduto nella lunga dialettica democristiana tra Amintore Fanfani e Aldo Moro.

 

Non sarà però la dialettica interna al movimento radicale a impedire a Bonino (o a chiunque altro) di assumere l’eredità di Pannella. In questo caso conta la specificità di una leadership che si è realizzata attraverso la costruzione volta a volta di nuovi fronti di combattimento, privi di contiguità e di continuità, che quindi non consentono la ripetizione, seppure aggiornata, che è la natura stessa del concetto di “eredità”. Il carattere strutturalmente inorganico – addirittura programmaticamente antiorganico – delle battaglie di Pannella rende impossibile una qualsiasi forma di riedizione, che non sia una cristallizzazione e quindi un sostanziale travisamento del suo messaggio politico. Quest’ultimo è stato così intrecciato con quello umano e persino fisico, da apparire irripetibile.

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