Il caso Pannella non è chiuso
E’ con sincera commozione che prendo la parola in quest’Aula, per ricordare la figura di Marco Pannella. Non voglio che passino le parole e gli accenti che si sono ascoltati in questi giorni, ed anche prima, nelle scorse settimane, con l’aggravamento delle sue condizioni di salute. Le parole sono molto importanti e vanno sorvegliate quando si ricorda un politico, un uomo pubblico. Lo sono ancora di più quando si ricorda una figura come Marco Pannella, perché le parole sono state, nel corso della sua vita, l’arma principale delle sue battaglie nonviolente. Nella comunicazione politica dell’Italia degli anni 70, paludata, ancora ottocentesca, i suoi slogan, le sue invettive, le sue espressioni provocatorie costituirono un’innovazione nella comunicazione. Si potrebbe dire che allora si aprì la strada a strumenti oggi tanto utilizzati e persino abusati. Lo si potrebbe dire ma si sbaglierebbe, perché gli slogan di Pannella non servivano la banalità, non erano a supporto delle parole facili.
Certo Pannella ha condotto battaglie che in qualche modo si stavano affermando nella società. Parole d’ordine che in qualche modo corrispondevano a domande sociali che si stavano consolidando. Ma ha condotto anche battaglie che alla società italiana sembravano lunari, distanti. E al servizio di queste battaglie ha messo la sua capacità di comunicare e di utilizzare anche strumenti nuovi, non per ricercare il facile consenso ma persino per seminare inquietudini, per porre delle domande, perché erano l’altra faccia di quelle torrenziali comunicazioni, di quei discorsi fatti di parentetiche e di incidentali, di digressioni di cui con difficoltà si cercava di seguire il filo, perché erano il contrario della banalizzazione, erano il tentativo di rendere la complessità del tempo che stavamo e che stiamo attraversando. In molti hanno voluto mostrare il loro affetto e salutare Marco Pannella nella sua casa in via della Panetteria, ed io stesso mi ci sono recato, accompagnato da quattro detenuti del carcere romano di Rebibbia. E’ una bella consuetudine dei Radicali recarsi in visita negli istituti penitenziari durante il triduo pasquale e nelle altre feste comandate. Quest’anno, le condizioni di salute non hanno permesso a Marco di lasciare la sua abitazione, e così ho pensato di regalargli questa visita, per dimostrargli la mia sincera gratitudine per l’impegno da sempre profuso dai Radicali italiani e da lui stesso per i diritti dei detenuti. Il carcere – uso sue parole – non può essere una “struttura di persecuzione sociale” per la soluzione di due problemi che non si sa altrimenti come affrontare, il consumo di droga e l’immigrazione clandestina.
A piazza Navona, in occasione dell’ultimo saluto, con altrettanta sincerità ho riconosciuto che quel che è stato fatto sulle carceri italiane in questi anni, i riflettori che abbiamo provato ad accendervi per migliorare le condizioni della detenzione e restituire alla pena il senso di umanità che la Costituzione gli assegna, lo dobbiamo anzitutto a lui, e a Papa Francesco.
Può forse riuscire singolare questo accostamento fra il vecchio leader radicale, libertario e anticlericale, e il Papa cattolico, gesuita, venuto da un paese alla fine del mondo, ma c’è una parola, anzi un principio che li avvicina e che può avvicinare tanti di noi: la dignità dell’uomo. Questa fede tutta laica nella dignità dell’uomo, sostenuta da una fede altrettanto robusta nel diritto e nelle libertà, ha costituito la stella polare dell’avventura politica e intellettuale di Marco Pannella. Gli slogan utilizzati contro la demagogia e non a favore della demagogia. Credo che non ci sia nulla di più vero nell’affermare questo nel ricordare forse la sua ultima battaglia, quella appunto per le condizioni dei detenuti, quella di mettersi in una società spaventata, dominata dagli imprenditori della paura, sostenuti da un’industria mediatica che fa spesso della paura il principale business. Ecco, in questa temperie, mettersi dalla parte di Caino. Credo che proprio questo dimostri quella fede nella libertà e nella dignità dell’uomo, forse più di ogni altra battaglia.
In un articolo che apparve anzitutto su un giornale spagnolo, nel 1987, Leonardo Sciascia – che di Pannella fu amico e che fu vicino ai Radicali fino al punto di accettare da essi la candidatura sia al Parlamento europeo che alla Camera – scrisse: “Pannella, e le non molte persone che pensano e sentono come lui (fra le quali mi onoro di stare) si trovano ad assolvere un compito ben gravoso e difficoltoso: ricordare agli immemori l’esistenza del diritto e rivendicare tale esistenza di fronte ai giochi di potere che appunto, nel vuoto del diritto, o nel suo stravolgimento, la politica italiana conduce”. Non era un giudizio lusinghiero, per la politica italiana, mentre lo era certamente per Marco Pannella. Ma è vero: Pannella ha dedicato la sua vita alle battaglie per lo stato di diritto e la legalità, ed è vero anche che diffidava del potere, che spesso travolge o stravolge, con la sua componente innegabile di violenza, distorce o calpesta le regole del diritto e della democrazia. Non sarei sincero sino in fondo, non lo saremmo tutti, in quest’Aula, se affermassimo di condividere senz’altro l’idea, che Sciascia richiama e che tante volte Pannella ha ripetuto, a volte gridato, che la storia politica del nostro paese sia stata gravata dal peso insopportabile della partitocrazia. Credo anche io, come Emanuele Macaluso – che ne ha parlato indicando una differenza di fondo rispetto al pensiero di Pannella – che proprio la crisi dei partiti, che ha segnato questi ultimi anni, dimostri come da essa venga una maggiore debolezza, non una maggiore robustezza delle istituzioni della Repubblica. Eppure nella sua denuncia e nella sua incapacità di cogliere quella denuncia, c’è un grande pezzo di responsabilità delle classi dirigenti che non seppero vedere la crisi di quel sistema e l’esigenza di reagire alla crisi di quel sistema.
Il mio racconto dell’Italia democratica e antifascista, nata dalla Resistenza, divergerebbe perciò in molti punti da quello offerto da Marco. Ma rimane salutare per la qualità della nostra democrazia e il suo mai sufficiente tasso di libertà quell’esercizio di diffidenza nei confronti del potere che Pannella non ha mai smesso di raccomandare. Uno studioso francese molto influente, Pierre Rosanvallon, ha parlato di “contro-democrazia”, a proposito di quelle forme di politica non convenzionale verso cui evolvono le esperienze democratiche dei paesi occidentali. Credo che i Radicali italiani e Marco Pannella si iscrivano pienamente in questo quadro. Non si tratta di un rigetto della politica o delle istituzioni. Al contrario: si tratta per un verso dell’eredità liberale di limitazione del potere attraverso il diritto; per altro verso, di forme di partecipazione democratica condotte su singole issues, definite in termini pragmatici e non ideologici, e spesso volte a richiamare i poteri elettivi al rispetto dei loro stessi impegni e della loro stessa legalità costituzionale. Mai la critica alla politica diventa sentimento anti-istituzionale.
Nell’uno o l’altro di questi registri si possono comprendere la gran parte delle battaglie che i radicali italiani hanno condotto, sotto la guida di Marco Pannella. Non solo quelle per il divorzio e l’aborto, durante la grande stagione dei diritti civili degli anni Settanta, per i quali credo che l’Italia debba essere grata a quest’uomo.
Il referendum abrogativo della legge Fortuna-Baslini che aveva introdotto il divorzio in Italia, si tenne il 12 e il 13 maggio 1974. Fu vinto dal fronte del no, e insieme alla sconfitta democristiana nelle successive elezioni regionali, determinò un profondo mutamento di scenario politico e sociale nel paese. La legge 194, sull’interruzione volontaria di gravidanza, fu approvata il 22 maggio del 1978, a distanza di circa tre anni dalla raccolta di firme promossa dai Radicali per la depenalizzazione dell’aborto. L’Italia non avrebbe quella legge, senza i Radicali, anche se nel 1981 essi promossero un nuovo referendum per abolirne alcune parti, in favore di una completa depenalizzazione. Pannella e i Radicali hanno però condotto la loro azione anche su altri terreni. Non posso non pensare, in particolare, alle campagne sui temi della giustizia: contro la legislazione emergenziale, per la responsabilità civile dei giudici, contro la carcerazione preventiva, per l’abolizione dell’ergastolo, per i diritti dei detenuti e per l’amnistia. E’ difficile negare che l’impegno di Marco Pannella abbia contribuito ad elevare l’attenzione e la sensibilità del paese su tutti questi temi, anche quando più dibattuta poteva essere la posizione tenuta su ciascuno di essi. Così come è difficile, credo, negare che in molti altri casi le sue intuizioni hanno anticipato un’evoluzione della politica e della società.
Vorrei fare due esempi. Il primo riguarda la questione ambientale. E’ già nelle mozioni e negli interventi del congresso radicale del 1977 che si trova formulata una chiara linea ecologista, contro gli inquinamenti ambientali, le sofisticazioni alimentari, il consumo di suolo, e per la promozione di leggi in difesa della natura e della salute. Lo stesso simbolo del “sole che ride”, utilizzato dai Verdi, fu loro ceduto dai Radicali italiani. Oggi, vi è una sensibilità ambientale molto più diffusa, sia fra i partiti politici che nella società, ma non v’è dubbio che l’ambiente e la sua tutela hanno smesso di essere considerati un lusso e sono diventati un parametro fondamentale nella produzione legislativa anche grazie alla spinta radicale. L’altro esempio che voglio fare riguarda la proiezione transnazionale del Partito radicale e il federalismo europeo. Non saprei contare le volte in cui ho sentito da Marco Pannella citare Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e il manifesto di Ventotene. Non vorrei sbagliarmi, ma credo che Marco Pannella abbia trascorso più anni nel Parlamento di Strasburgo che in quello italiano: nell’arco di tempo che va dal 1979 al 2009, anni in cui gli Stati Uniti d’Europa sono stati per lui un sogno continuamente evocato e mai raggiunto.
Di quell’impegno voglio ricordare in particolare un momento, assai significativo: l’istituzione, nel 1981, proprio per iniziativa di Altiero Spinelli, di una Commissione per gli affari istituzionali in seno al Parlamento europeo, incaricata di elaborare modifiche ai trattati esistenti, allo scopo di promuovere la completa integrazione politica della comunità europea. Vicepresidente di quella commissione fu eletto il leader radicale. Anche in quel caso, credo si possa dire che Pannella era in anticipo sui tempi, e forse anche poco compreso: l’Atto unico europeo, che fu approvato nel dicembre del 1985 in Lussemburgo non ridisegnava l’Unione, secondo l’indirizzo del Parlamento di Strasburgo, ma si limitava a realizzare, entro il 31 dicembre 1992, il mercato interno. I temi politici rimanevano così elusi, e l’Unione ne paga ancora oggi il prezzo. Mi accorgo che in queste mie parole sto forse nascondendo i tratti irruenti, istrionici, a volte anche irritanti, di una personalità ingombrante e, per tanti aspetti, fuori del comune. Nel rendere omaggio alle sue intuizioni e alle sue battaglie, sto forse lasciando in ombra uno stile politico che rappresentava sicuramente un’eccezione davvero singolare nel panorama italiano, e, direi, europeo. Non voglio fare a Marco Pannella e ai Radicali il torto di presentarli in abiti che non sono stati, che non potevano essere i loro. Non voglio perciò dimenticare i digiuni della fame e della sete, gli atti di disobbedienza civile, le provocazioni come quella di presentarsi imbavagliato in televisione, per protesta contro la gestione dell’informazione da parte del servizio pubblico, o come la restituzione in piazza dei soldi del finanziamento pubblico ai partiti, con tanto di timbro impresso sulle banconote.
Anche quest’Aula, anche le istituzioni parlamentari della Repubblica e della Comunità europea, sono state più volte “sfidate” – lo dico con il massimo del rispetto e della considerazione, ma anche della sincerità – dallo scandalo che Marco e i Radicali hanno saputo incarnare: penso alle battaglie ostruzionistiche, ma anche alle candidature controverse, promosse dai radicali. Ma corre anche l’obbligo di ricordare che il metodo nonviolento dei radicali e di Marco Pannella ha dato all’Italia pagine che rimangono scritte indelebilmente nella storia di questo paese. Ha dato alla coscienza civile dell’Italia il caso Enzo Tortora. Enzo Tortora fu arrestato per traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico alle quattro del mattino del 17 giugno 1983, insieme a centinaia di altre persone, sulla base di dichiarazioni di pentiti rivelatesi in seguito del tutto false e infondate. Pannella ne sposò immediatamente la causa, e lo candidò al Parlamento europeo, con enorme rumore dell’opinione pubblica. Un’opinione pubblica, allora come adesso, spinta spesso a condannare prima ancora di comprendere. Dopo la condanna in primo grado, a oltre due anni dall’arresto, Tortora venne eletto presidente del Partito radicale, ben prima di essere definitivamente scagionato da ogni accusa. Bisogna dirlo: Pannella aveva visto giusto. E i Radicali condussero un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati la cui onda lunga è arrivata sino in questo Parlamento, con la nuova disciplina approvata in materia lo scorso anno.
Lo ricordavo in apertura di questo mio intervento e voglio ribadirlo: sui temi della giustizia, dei diritti, delle garanzie, sui tratti fondamentali di una civiltà giuridica liberale, la cultura radicale e Marco Pannella hanno offerto e continuano a offrire un contributo imprescindibile. Il contributo si è prolungato anche fuori dei confini nazionali, con la battaglia per l’istituzione della corte penale internazionale dell’Aia, e con la campagna contro la pena di morte nel mondo. Pezzi importanti non semplicemente della sensibilità, ma anche dell’ordinamento giuridico sovranazionale sono dunque legati all’impegno politico di Pannella e del Partito radicale transnazionale da lui fondato. I fronti che Pannella ha aperto sono molti. Non possono stare tutti in un discorso; è davvero ammirevole come siano stati tutti in una vita soltanto. La campagna contro la fame nel mondo, quella per la legalizzazione delle droghe leggere, quella per l’obiezione di coscienza, le ultime battaglie sui temi della fecondazione artificiale e dell’eutanasia: mi limito a richiamarle in maniera così approssimativa, per invitarvi a considerare come siano tutti temi sulle quali la società non potrà che continuare ad interrogarsi. Egregio Presidente, cari Senatori, il 16 luglio 1974 – siamo all’indomani del referendum sul divorzio – la prima pagina del Corriere della Sera ospita un dirompente articolo a firma di Pier Paolo Pasolini, con il titolo: “Apriamo un dibattito sul caso Pannella”. Pannella stava conducendo in quelle settimane un lunghissimo digiuno della fame, per avere fra l’altro accesso ai programmi televisivi della Rai. E Pasolini prendeva di mira sia il clericalismo della Democrazia cristiana di Fanfani, sia il realismo politico del partito comunista, sordi alle istanze poste dal leader radicale. E all’uno e all’altro opponeva il candore di Pannella.
Nell’incontrare un’ultima volta Pannella, a Pasqua di quest’anno, posso dire di continuare a non condividere la particolare durezza delle parole di Pasolini, ma, forse, di capire meglio cosa intendesse parlando del candore di Marco. Credo di averlo visto, quel candore. E anche se aprire un dibattito su Pannella era scomodo allora com’è scomodo oggi, io credo che il modo migliore per ricordare un uomo al quale dobbiamo tante arrabbiature ma anche molta gratitudine sia quello di provare a riaprirlo, quel dibattito. Mi auguro allora che queste mie parole servano non a chiudere un capitolo della storia d’Italia, ma a svolgerne uno nuovo. Mi auguro infine che con questo stesso spirito di apertura al nuovo, di curiosità per i tempi che verranno, di disponibilità al confronto anche duro ma sempre leale fra le opinioni, di cui vivono le istituzioni parlamentari, sia possibile affrontare i passaggi sia politici che istituzionali che ancora attendono il paese.
Quelli pubblicati sono estratti del discorso di commemorazione che il ministro della Giustizia ha tenuto ieri al Senato della Repubblica