Radicali per il “sì” al referendum costituzionale
Vogliamo dire l’ultimo “sì”. O forse il primo di una nuova serie. Ma un “sì” definitivo. Sì alla fine di una lunga, insopportabile transizione. Chi scrive promosse i referendum Segni, i referendum Giannini, i referendum Tortora. Volevamo dare al paese una democrazia moderna e bipartitica, mandare a casa la partitocrazia spartitoria il cui debito pubblico ci incatena ancora oggi. Volevamo liberare le partecipazioni statali, le banche, l’economia allargata dall’occupazione correntizia. Non volevamo meno stato: volevamo più stato ma meno Partito. E poi volevamo stato di diritto, equilibrio dei poteri. Perciò responsabilità civile del giudice, diverso Consiglio superiore della magistratura, diverso uso di un giudiziario che da ordine si andava facendo potere. Anzi potere prepotente. Lo ricordo ancora con la pelle d’oca. Il deputato Mauro Mellini in un’Aula quasi deserta, dove però un pomeriggio sedevano Craxi e Andreotti. Mauro si alzò: “Le vostre leggi speciali, i vostri pentiti, la vostra indifferenza verso ciò che può accadere a un qualsiasi cittadino come Tortora vi travolgerà. La campana suonerà anche per voi”.
Bettino più guascone, Giulio col sorriso curiale di sempre lo guardavano come un demente. Poi, accadde tutto. Un tutto che non è ancora finito. Un tutto nel quale la notte della Prima Repubblica continua a generare incubi, in un sonno della ragione che non sa partorire una Repubblica nuova, istituzioni diverse, una vita pubblica riconsegnata a ciò che in democrazia sta al centro: il primato della politica. E allora punto. Punto e a capo. Come recita il titolo del libro di un mio caro amico: “Non si può tornare indietro”. Vedo affollarsi intorno al referendum costituzionale tutte le ombre lunghe, tutti i mandarini, tutti gli immobilisti, tutte le voglie di rese dei conti, tutti i gattopardi, tutti gli interessi di chi vuole inchiodare la Repubblica a questo malinconico Macondo, nel quale come in un romanzo di García Márquez tutto marcisce e tutto si ripete.
Basta. Non me ne frega niente se Renzi è simpatico o no. Non me ne frega nulla del tacco 12 di Maria Elena. Non mi importa dei secondi fini, dei terzi, dei quarti. Non mi interessa andare a caccia di bacchette magiche. La nuova legge elettorale non trasformerà il rospo in principe, né la riforma costituzionale muterà i topolini nei destrieri di Cenerentola. Però ci sono. Esistono. Ci danno un sistema politico libero dal proporzionale spartitorio e dalle porcellate, puntano al bipartitismo e non all’“aggiungi un posto a tavola”, recuperano allo stato poteri troppo superficialmente delegati a regioni spesso deresponsabilizzate. Certo: da parlamentare che a suo tempo militò nell’opposizione avrei voluto una forma di governo più forte, perché è in un esecutivo forte la vera garanzia di poter fare forte opposizione. Ma pazienza.
Sì, quindi: e sì anche per finirla con la barzelletta del “rischio autoritario”. Sia detto con tutto il rispetto: Professori supremi, fateci il piacere. In un’Europa dove il 70 per cento delle decisioni cruciali sulle nostre vite è preso da signori che vivono a Bruxelles e che non abbiamo mai conosciuto né eletto, in una Bolivia dove un professore della Bocconi viene prelevato, fatto senatore a vita, premier e capopartito, in un Venezuela dove un dossier anonimo e la favola di un cavallo bianco sputtanano un ammiraglio della marina in prima pagina e dove il servitore dello stato generale Mario Mori (onore generale! riceva questo saluto da un antimilitarista convinto) viene crocefisso per 23 anni come mafioso per poi essere assolto sui giornali con tre righe a pagina 23, in un paese nel quale si diventa ministro, presidente di regione, sindaco di grande città non facendo politica ma spedendo avvisi di garanzia, spesso creando telenovele di maxi-inchieste puntualmente destinate a finire in niente, violando segreti istruttori con la complicità di pennivendoli dei palazzi di una giustizia così giusta e celere da convincere qualsiasi azienda straniera a non investire un solo centesimo in Italia, ecco in questo Belpaese il “rischio autoritario” fateci il favore di vederlo già intorno, accanto, sopra di voi. Non in questa blanda riforma costituzionale e nella buona legge elettorale a essa collegata.
Sì quindi. Sì da Radicale e spero con tanti altri Radicali, perché io non so definirmi in altro modo. Radicali per il sì. Ma anche per chiedere un sì ai Radicali. Per fare uscire dalla marginalità, da un cono d’ombra, dalla malinconia poco importa se uno, cento o mille Radicali ma soprattutto una storia politica e una vicenda umana che può guardare diritto negli occhi ciascun italiano. Radicali per il sì, sì per i Radicali. E sgombriamo subito il campo. Non ci interessa rifare gli onorevoli, i deputati, i parlamentari europei, i presidenti di qualcosa, i sottosegretari né i segretari di partito: l’abbiamo già fatto e oggi stiamo benissimo, molto meglio a fare altro. Abbandonare la politica a tempo pieno, tornare a fare la spesa al supermercato e a parlare col benzinaio ci ha fatto bene. Tanto bene, o almeno abbastanza da farci capire che non ci interessa candidarci ad altro che a essere noi stessi, la nostra storia, le nostre speranze, la dignitosa forza civile che possiamo essere: buona linfa di una esangue democrazia repubblicana.
Per essere ancora più chiari: non ci interessano le radio, le frequenze e le antenne, le sedi e gli immobili che sono – letteralmente – affari altrui. Non ci interessa fare partiti transnazionali e transcomunali, impancarci a depositari e custodi di alcunché, e tanto meno pronunciare princìpi planetari per meglio infilarci al Consiglio comunale di Brembate di Sotto. Siamo Radicali per convinzioni antiche e nuove, siamo Radicali dalla Marianna alla Rosa nel Pugno, siamo Radicali perché questo è anche un modo di vivere e di essere, orgogliosi di quella che fu una forza povera e nobile ma umili quanto basta per ascoltare, capire anche chi è più diverso e lontano da noi. Questo vogliamo essere: speranza e volontà. Non solo per noi, cinquantenni o sessantenni che hanno forse più esperienza. Lo sappiamo: la nostra generazione può avere il solo compito di testimoniare questa passione civile, e di consegnare a dei ventenni il testimone. Solo per questo siamo qui.
Chi c’è batta un colpo. Facciamo delle nostre case in cento città italiane cento piccole sedi aperte. Facciamo dei nostri telefoni, delle nostre pagine facebook, dei nostri siti i tam tam che rilanciano una parola, una storia, un progetto. Siamo quelli che in mille raccoglievano le 500.000 firme dei referendum, quelli delle veglie e dei digiuni, quelli delle marce e dei sit-in, quelli che nell’Italia delle parrocchie e delle sezioni comuniste questo paese lo seppero cambiare. Coraggio. Vedrete come faremo in fretta a ritrovarci, a consegnare la parola Radicali non al passato ma al futuro. Un futuro del quale non abbiamo paura.