Debito pubblico e Pubblica amministrazione parassitaria al comizio di Pannella, senza paura
Contro la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite (1979)
Sì, liberismo: è noto che Ernesto Rossi è sempre stato qualcuno accusato dai nazionalizzatori del centralismo burocratico – si centralizza in modo burocratico il proprio partito e anche l’economia e lo Stato – di essere un vecchio conservatore. Niente affatto. Noi personalmente riteniamo che esistono alcune operazioni liberistiche che possono essere tentate perché siamo contro quel tipo di economia pubblica nel quale si privatizzano i profitti e si socializzano le perdite, magari con l’aiuto del sindacato ricondotto a funzioni corporativistiche.
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Lo stato corporativo fascista purtroppo vive ancora: vedi Lama e Confindustria (1980)
Il fascismo non ha avuto solo un volto demoniaco, ha avuto anche il volto ragionevole dello stato corporativo: quello stesso volto che oggi è più chiaro di 40 anni fa. Quando vediamo i sindacati sostenere il governo e non volerne la crisi; quando vediamo il presidente della Confindustria magnificare la serietà e la responsabilità del leader del sindacato Lama; manca poco per aver la fotografia dello stato corporativo che i fascisti non ebbero il tempo di attuare. Cioè il potere burocratico al centro collabora con i rappresentanti dei lavoratori formalmente uniti – unitari – e con il capo del padronato. Ecco, se non vogliamo credere masochisticamente che l’antifascismo è stato battuto per decenni da quattro sicari e assassini, dobbiamo riconoscere che questa sconfitta ha avuto un’altra causa, che poi è questa forza oggettiva di classe.
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Quegli economisti che teorizzano tanto, senza indicare dove trovare le risorse (1983)
Gli economisti vengono tutti dal Pci. Come Pirani, che era all’Unità, e adesso è il mentore economico di sua maestà Gianni Agnelli, e di sua servitù Giorgio Fattori. Scrivono di teorie, di rigore… Il rigore di De Mita, il rigore delle pensioni di invalidità, per persone per fortuna valide, in luogo del lavoro, della promozione di strutture produttive diverse. Ma, cosa strana, in quegli editoriali non si fa mai quello che facciamo noi: dire quali e quanti risorse reperire, quante destinarne a che cosa, quindi quante toglierne a che cosa. Non c’è discorso economico se non ci si assume la responsabilità di indicare dove si toglie “quanto”. Nell’economia è come nella vita privata, è come nella scelta degli amori e delle amicizie: si sceglie qualcosa a discapito delle altre.
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Basta casse integrazioni ordinarie o straordinarie nei settori decotti (1993)
Ho potuto dire che noi siamo contro le casse integrazioni straordinarie, e spesso anche quelle ordinarie, che come ammortizzatore sociale preferiamo piuttosto considerare il salario minimo garantito. (…) Perché se il costo economico di questo è alto, questo però non inquina la politica degli investimenti, non dà vita, come vuole il Pds, e tutto l’arco che attorno a lui si muove, col corporativismo di destra, alla destinazione di risorse in settori decotti. Perché quelli delle casse integrazione e casse integrazioni straordinarie sono in genere imprese e settori decotti, espulsi, prima ancora che dalla cattiva gestione, espulsi dalla realtà della divisione del lavoro e della produzione di tipo internazionale che si assegna al nostro paese.
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La burocrazia è diventata ceto parassitario, i sindacati sono complici
Due milioni di miliardi di debito pubblico. Trecento milioni al minuto, noi paghiamo, per la politica dei sindacati, della Cgil, della Cisl, e della Uil, cioè di coloro che questo regime ha addetto al controllo e allo sfruttamento del lavoro e dei lavoratori, a coloro che sequestrano, attraverso trattenute padronali o di stato, dai millecinque ai duemila miliardi, dei quali nessuno chiede conto. Anche coloro che prendono una miseria alla fine danno, e non lo sanno, cinquanta, settantamila lire al sindacato, ai burocrati. La burocrazia è una in questo stato, ed è divenuto ceto parassitario, che sia burocrazia della giustizia, burocrazia del sindacato, burocrazia militare, contro i militari, contro i giudici, contro i cittadini, ogni tanto togliendoci la verità dei drammatici conflitti sociali, che noi dobbiamo essere liberi di reingaggiare, come consumatori contro le industrie della produzione imposta, protetta, come utenti di servizi vergognosi, non inchiodati solamente sul fronte del lavoro, perchè il potere, e il potere di classe, ha guarnito il fronte dello scontro sul lavoro di propri rappresentanti in mezzo a noi.
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La pensione a cinquant’anni? Una coglionata. A 70 anni si è giovani se si vuole (1987)
La pensione a cinquant’anni è una coglionata, perché la pensione, che era una battaglia di liberazione 60 anni fa, oggi rischia di essere una condanna alla morte civile di donne e uomini che hanno il diritto, la pienezza e la capacità di lavorare. Le baby pensioni, le pensioni ai funzionari di partito, ai parlamentari, ai dirigenti, ai consiglieri regionali, provinciali, comunali… La pensione a tutti è la pensione ai parassiti! Noi dobbiamo rivendicare il diritto del tempo libero e del tempo di lavoro in un ambiente diverso, per tutti. A 70 anni si è giovani se si vuole. A 70 anni ci si può amare, fare chiarezze, sorridere, essere ricchi della propria saggezza, teneri, dolci, e forti e capaci di dare grandi contributi.
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Sanità, sindacato, commercio libero e basta sostituto d’imposta. Un programma (1993)
D. Vogliamo allora parlare di questi tredici referendum per la cosiddetta rivoluzione liberale?
R. Si tratta di un progetto chiavi in mano che deve scattare fra settanta settimane, se raccogliamo le firme. I volani di questi referendum sono tre: il primo è quello dei referendum elettorali e quindi di rivoluzione democratico-istituzionale. Si tratta di scegliere le istituzioni collaudate della politica anglosassone, l’unica che non ha prodotto mostri in questo secolo e che d’altra parte costituisce la premessa per eleggere presidenti del Consiglio e capi di stato in modo diretto e per avviare un processo di federalismo liberale che non è più rinviabile. Secondo volano: sanità e sindacato. E’ questo un attacco alla partitocrazia in una delle strutture, quella sindacale, che è, insieme a quella dell’ordine giudiziario, la più pericolosa e la più immune dal crollo del proprio regime. Un’operazione di giustizia: noi oggi abbiamo 10 milioni di sindacalizzati, una percentuale bulgara. Con la volontarietà dell’adesione che dovrebbe sostituire il criterio pigro e automatico attuale, questi sindacati con quello che meritano avrebbero tutt’al più un milione di iscritti. Per quel che riguarda la sanità significa realizzare un sistema a due settori: uno pubblico e uno privato, in un modo tale che venga garantita la concorrenzialità di quello pubblico e che nell’ambito di quello privato venga garantita la concorrenza. Terzo volano: l’assetto economico e sociale del paese. Legalizzazione del commercio e del mercato. Liberazione dei dipendenti dal sostituto d’imposta. Perchè non possiamo permettere per altri dieci anni che sia proprio il lavoratore dipendente “la vacca munta, magra e stremata” di questo Stato parassita.
D. Sembra che il sindacato vi abbia impedito di raccogliere le firme all’interno dei grandi magazzini Standa…
R. Sì, hanno impedito di fornire ai clienti della Standa un servizio pubblico. Il riflesso della Cgil è stato quello di minacciare scioperi, il tutto a dimostrazione del loro atteggiamento cieco, becero, intollerante e antisindacale. Un sindacato oggi dovrebbe facilitare la vita ai cittadini, non complicarla. D’altra parte, se penso a sindacati come l’Usigrai o ai giornalisti di Fiesole, mi viene in mente che rappresentano le punte più ottuse e plumbee contro il progresso civile e la tolleranza nel nostro Paese.
D. L’economista Giulio Tremonti dice che è utopistico abolire il sostituto d’imposta perchè così le tasse non le pagherebbe più nessuno…
R. Tremonti può anche avere ragione, ma io perseguo la rivoluzione liberale in quanto giudico insufficiente un andamento riformista. Posso anche ammettere che l’intero sistema contributivo vada a ramengo se si vince questo referendum, specie se lo Stato rimane immobile a guardare. Ma allora: crolli pure uno Stato che ha bisogno della coercizione fiscale per vivacchiare e che teorizza per ancora dieci anni un’iniquità fiscale e strutturale di questo tipo. Tanto se le cose continuano così, crollerà comunque. (…)
Da un’intervista di Dimitri Buffa per l’Opinione
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Articolo 18, un unicum italiano (2001)
Non esiste nulla di equiparabile all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori in nessun paese democratico al mondo. Dunque: o tutti i paesi socialdemocratici sono reazionari o altrimenti in Italia c’è una stranezza. Del resto che questa norma sia una norma anti-lavoratori perché li considera incapaci di fare delle scelte serie é dimostrato dal fatto (che la gente non conosce) che Cofferati, il sindacato, tutte le confederazioni anche padronali, il no-profit, hanno proibito per loro l’articolo 18.
Da un intervento a RadioRadio
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Il regalo del welfare a ogni neonato italiano: milioni di debito. E’ il Problema (2007)
(…) Veniamo, dunque, al “dunque”: sul nostro territorio, oltre che alle immani tragedie della Tav sì o no, di Vicenza americana con la kappa o no, del gassificatore a Rovigo o no, di Romano Prodi proteso a stupirci, come dichiara da oltre un anno ormai, in questo nostro tanto bene amato territorio, ogni embrione che viene alla luce sotto la forma di bimbo, e ottiene finalmente anche agli occhi di noi miscredenti ictu oculi sembianze umane, nasce con un debito di oltre 52 milioni di moneta di vecchio conio, di lire. Questo è quanto accade diciamo da almeno vent’anni per tutti quanti noi. Esattamente da venticinque anni, noi abbiamo segnalato questa peculiarità del nostro welfare, vecchio di circa ottant’anni se contiamo quello, a prezzo di libertà, realizzato dal regime fascista e quello del suo erede tuttora, dopo sessant’anni, oggi vigente contro il lavoro e i lavoratori, grazie o malgrado al dettato costituzionale della Repubblica fondata, pressoché unicamente, sul Lavoro. Per noi Radicali dal 1981-82 si è trattato di un problema effettivamente prioritario (quello del debito pubblico), a tal punto che proponemmo emendamenti ai bilanci dello stato per controllarlo e riassorbirlo, indicando un 7 per cento di riassorbimento annuale per evitare che l’inizio di un flagello da tutti – ripeto, da tutti – ignorato e/o negato si traducesse in un debito che cifravamo in oltre mezzo milione di miliardi di lire e che da due decenni supera o manca di poco la cifra di tre milioni di miliardi. Confortati non solamente dal Fondo monetario internazionale, dalla Bce, dall’Ecofin, dalla Comunità europea, dalla Corte dei conti e ora, finalmente, in modo solenne e tassativo dal governatore della Banca d’Italia (e non solo: perfino, tra gli altri, da D’Alema: “Il tesoretto, i soldi non ci sono e, se ci fossero, non sarebbero disponibili…”).
Con Emma, dunque, abbiamo per un giorno ringhiato e alla fine azzannato il Problema. E non solo non lo molleremo, come non lo abbiamo mollato ormai per decenni, ma ricorderemo che abbiamo avuto perfino la forza – “storica”, direi – di provocare lo scorso anno un’alternanza che senza di noi sarebbe stata mancata almeno per mezzo milione di voti, al fine di verificare se l’altra componente del regime detto bipolare, in realtà di ormai disperato monopartitismo imperfetto, potesse divenire seme reale dell’Alternativa che urge. Macché! Poiché la riforma previdenziale è, per astratto riconoscimento di tutti, essenziale per risanare la patologica realtà economico-finanziario-sociale del nostro paese, abbiamo chiesto che finalmente la pienezza del costituzionalissimo diritto al lavoro venisse promossa, facilitata, sostenuta, strappata anche per quelle e quelli che abitano sul territorio, anche per quanti hanno dinanzi decenni di forza, di salute, di volontà di vivere che lo sviluppo demografico-antropologico genera, esige e consente.
Devo concludere. Abbiamo una riunione radicale, Emma inclusa, e concludo in questo modo: i due terzi degli elettori del Partito (nonviolento, radicale, di Sinistra europea…) di Rifondazione comunista sono d’accordo con noi e non con la Sinistra (Comunista e dintorni sindacali) radicale. Ritengono infatti che sia giusto elevare i limiti d’età per il pensionamento. Il che, di per sé, vorrebbe dire perfino “poco”, se non accadesse ormai, regolarmente, da oltre dieci anni. (…) Ho terminato. Al congresso costitutivo della Rosa nel pugno dissi che la sua affermazione era strutturalmente legata anche al superamento di “Livorno e di Tours”, dell’eresia o dello scisma comunista, non meno che delle Specificità socialiste, liberali, radicali, laiche, e – oggi aggiungo – liberalsocialiste, socialiste liberali e via litaniando. Ne resto convinto. La Rosa nel pugno resta, più che mai, concretamente, grazie a quelle che un tempo si chiamavano le “Idee forza”, l’appuntamento dello specifico politico e storico italiano, europeo e globale. Per me, come a lungo le “doppie tessere” socialiste, ora, dopo anni di doppie tessere anche comuniste a Nessuno Tocchi Caino, all’Associazione Luca Coscioni, spiritualmente alla Rosa nel pugno, al Partito radicale transnazionale e a Radicali italiani, queste “nuove” e antiche doppie tessere (…) restano le più vive, le più care, le più impegnative. Mi auguro che questo accada anche per il compagno Ferrero.
Possiamo farlo se non siamo sordi all’aiuto profondo, tanto profondo da rischiare perfino l’esasperazione, se non la disperazione, non solamente di tutti coloro che ho evocato sopra, ma di quei due terzi di dipendenti che, mentre il 1° maggio del 2003 l’esponente di Rifondazione Paolo Ferrero e il radicale Michele De Lucia discutevano del nostro tradimento di un diritto umano acquisito, in più di due terzi sceglievano, loro come i democratici della sinistra socialista liberale pressoché del mondo intero, la nostra posizione sull’articolo 18: risarcimenti sempre più adeguati e niente “reintegri”, specialità italiana come l’obbligatorietà dell’azione penale. Alternativa, alternativa, alternativa, cioè passare subito a divenire dei Quasi buoni a niente al pari degli altri: quelli capaci davvero, ma davvero, di tutto. Grazie, carissimo Giuliano, carissimo direttore. Spero a molto presto. Anzi, nella mia formula che conosci bene: a subito!
Da un intervento sul Foglio