Grillo e i 5 stelle hanno un problemino in Comune. I dati

Luciano Capone

Movimento nuovo e dal basso? In realtà da anni, numeri alla mano, il M5s preferisce non correre per non governare. “Il nuovo Rinascimento è nei Comuni”, esordì il comico nel 2008. Invece la sua creatura è diventata nazionale, verticistica, senza radicamento e incapace di selezionare la classe dirigente

Roma. “La democrazia può partire solo dal basso. Il nuovo Rinascimento avrà origine nei Comuni”. E’ il 10 febbraio del 2008 quando Beppe Grillo pubblica sul suo blog il “Comunicato politico numero uno”, l’atto che segna l’inizio dell’avventura politica di quello che diventerà il Movimento 5 stelle. Nel comunicato erano delineati due princìpi fondamentali del grillismo: democrazia dal basso e legame col territorio. Otto anni dopo quei princìpi sembrano smarriti: dai meet up locali e i comitati di quartiere siamo passati al direttorio nazionale e ai salotti dei talk show. Il movimento di Grillo è divenuto l’esatto opposto di quello disegnato nel febbraio del 2008: un partito verticistico, in grado di raccogliere grandi masse di voti a livello nazionale, ma incapace di conquistare consenso localmente. Oggi il M5s governa in 14 su 8 mila comuni, mentre alle amministrative di domenica si presenterà solo nel 20 per cento dei comuni. Da quel primo comunicato si è votato almeno una volta in tutti i comuni, ma dal punto di vista della partecipazione il movimento non ha fatto progressi. Dal 2012 – anno in cui i grillini eleggono i primi sindaci – il M5s ha presentato una lista in 1.200 comuni, il 15 per cento del totale. E’ facile sapere in quanti comuni si candida il M5s, dato che non fa alleanze e non appoggia altre liste civiche, come spesso fanno gli altri partiti a livello locale. Dove partecipa alle elezioni, quindi, ha un’unica lista e un suo candidato. A queste amministrative si presenta in 252 comuni su 1.368, circa 1 comune su 5. Sembra un numero basso, ma in realtà soltanto in un’altra tornata il Movimento è riuscito a candidare un numero più alto di sindaci: nel 2013, quando si è presentato in un comune su 3 dei 700 che andavano al voto.

 

Dopo il trionfo alle politiche di quello stesso anno, quando i grillini divennero il primo partito in Italia con il 25,5 per cento dei consensi, il M5s ha compiuto una vera e propria ritirata. Alle amministrative del 2014, in cui andavano al voto la metà degli 8 mila comuni italiani, ha presentato soltanto una lista ogni 7 comuni. Stessa quota alle amministrative dell’anno successivo. E’ sorprendente notare come alle politiche del 2013 il M5s sia stato il primo partito in circa 2.700 comuni, un comune ogni tre, mentre alle amministrative non riesca a presentare neppure una lista nell’85 per cento dei comuni quando si vota per il sindaco. L’esitazione a partecipare alle amministrative non sembra essere un caso di “pochi, ma buoni”, in cui il Movimento concentra gli sforzi più sulla qualità che sulla quantità. Nei più di mille comuni in cui è riuscito a presentare una lista ha vinto soltanto in 17 casi. Gli esponenti del M5S si sono spesso giustificati dicendo che il movimento era giovane e doveva ancora radicarsi sul territorio. Ma da quel primo comunicato politico sono passati oramai 8 anni e difficilmente il movimento può ancora definirsi “nuovo”. Oggi, la situazione del M5s ricorda quella in cui si trovava la Lega Nord all’inizio degli anni Novanta: un movimento di protesta e anti-sistema, inizialmente marginale, che ha avuto un’esplosione di visibilità e consensi dopo il collasso del sistema politico-partitico. Ma se i risultati del M5s a livello locale sono quelli che abbiamo visto, quelli della Lega sono un altro paio di maniche.

 


Luigi Di Maio (foto LaPresse)


 

Alle amministrative del 1992, a Varese, la Lega elesse il suo primo sindaco in un comune capoluogo di provincia. L’anno successivo, nel 1993, elesse al ballottaggio il sindaco di Milano e nella stessa tornata elettorale, insieme alle altre leghe autonomiste, riuscì a far eleggere 24 sindaci in comuni con più di 15 mila abitanti, tra cui i capoluoghi di provincia Novara, Vercelli, Lecco, Pavia e Pordenone. In tutto, nel 1993 la Lega governava in 125 comuni, 4 province e una regione, il Friuli Venezia Giulia. Umberto Bossi ha investito molto sul partito, sul radicamento territoriale e la formazione di una classe di amministratori capaci, che hanno permesso alla Lega di superare anche i momenti di crisi del partito a livello nazionale.
Il M5s, invece, quando prova a presentarsi sul territorio ha grandi difficoltà proprio per l’incapacità di proporre una classe dirigente: “Il M5s ha un problema di candidature – dice al Foglio Roberto D’Alimonte, politologo della Luiss – ha raccolto un larghissimo consenso d’opinione a livello nazionale, ma non riesce a esprimere candidature e leadership locali”. Per questo motivo, i vertici spesso non concedono la certificazione, ovvero “il marchio”, in quei luoghi dove si pensa possa scaturire un danno d’immagine: per un movimento verticistico e nazionale – e non più “dal basso” e comunale – il cui tratto essenziale è la purezza, è meglio non correre e non rischiare di danneggiare il brand. A questo si aggiunge l’assenza di un meccanismo interno di risoluzione e composizione dei conflitti, ciò che banalmente viene chiamata “democrazia interna”. L’assenza di leadership che emergono spontaneamente e che per questo vengono riconosciute (a parte qualche eccezione come la Appendino a Torino, Pizzarotti a Parma e Nogarin a Livorno), l’interesse a salvaguardare l’immagine del partito nazionale, l’assenza di un meccanismo di risoluzione dei conflitti interni e il verticismo, fanno sì che alle prime difficoltà il comitato centrale ristretto del partito decida che è meglio non presentarsi.

 

La dinamica di un vertice senza gli strumenti necessari per relazionarsi con i territori e quasi spaventato dai suoi stessi amministratori locali è emersa con chiarezza anche in questa tornata amministrativa. A Salerno, dove il M5s era sopra il 20 per cento, vince le primarie un attivista, Dante Santoro, che poi viene espulso per un cambio in corsa delle regole. Poi è stato scelto un altro candidato sindaco, Oreste Agosto, ma il movimento si spacca anche per l’intervento di parlamentari e il vertice decide di non dare il simbolo a nessuno: “E’ un misto di faide e verticismo, sono intervenuti Cioffi e Tofalo perché volevano decidere loro le candidature”, dice al Foglio il vincitore delle primarie, poi espulso, Dante Santoro. Storia simile a Rimini, da tempo una delle capitali del Movimento. E’ la città dove i grillini hanno ottenuto i risultati migliori: mai meno del 24 per cento nelle ultime elezioni nazionali (europee e politiche). A Rimini i grillini sono riusciti a eleggere un deputato, un europarlamentare e un consigliere regionale, oltre a tre consiglieri comunali nelle elezioni municipali del 2011. A dicembre del 2015, il gruppo dei circa cinquanta attivisti (gli “attivi” come si chiamano tra di loro) inizia le consultazioni per decidere chi presentare alle elezioni 2016, una buona occasione per cercare di arrivare al ballottaggio: Rimini potrebbe diventare la nuova Livorno o, ancora meglio, la nuova Parma. Lo spirito dei riminensi, infatti, è per certi versi vicino a quello di Federico Pizzarotti, il sindaco di Parma più volte accusato di essere un ribelle. “A Rimini siamo teste pensanti”, spiega Davide Cardone, uno degli organizzatori della lista e oggi fuoriuscito dal Movimento e alla guida di una nuova lista al comune di Rimini. A gennaio, gli “attivi” eleggono quasi all’unanimità il loro candidato sindaco: Davide Grassi, un avvocato penalista locale: “Con cinquanta elettori in una città di 140 mila votanti è stata una votazione più legittima di quella di Milano, dove un centinaio di persone hanno eletto il candidato di una città dieci volte più grande”, dice Cardone al Foglio.

 

Ma i consiglieri comunali sono divisi: uno è a favore di Grassi, ma un’altra, Carla Franchini, appoggia Sonia Toni, l’ex moglie di Beppe Grillo. In quelle settimane nasce una seconda lista grillina, con il suo candidato sindaco e con l’appoggio di Toni. Cardone racconta che a quel punto lui e gli altri sostenitori di Grassi si sono rivolti ai loro referenti eletti, tra cui la deputata Giulia Sarti, per avere un’opinione del Direttorio su quello che stava accadendo: “Ci risposero di stare sereni”. Poi, il 18 marzo, con un post senza firma comparso sul blog di Grillo, gli “attivi” vengono a sapere che a Rimini il Movimento non certificherà alcuna lista, così come non ne certificherà nemmeno a Caserta, Latina, Ravenna e nemmeno a Salerno. La ragione che sarà fornita agli “attivi” è semplice e disarmante: il Movimento non possiede gli strumenti adatti a risolvere una controversia: o il territorio si presenta unito, oppure lo staff di Beppe Grillo, cioè la Casaleggio Associati, non può concedere l’approvazione a nessuna lista. Sempre, naturalmente, che la lista noi sia composta da fedelissimi del Movimento. Poco lontano da Rimini, infatti, a Bologna, Max Bugani, attivista storico e commentatore del Blog di Grillo (considerato uno dei “talebani”, cioè dei fedelissimi del Movimento), ha ricevuto l’approvazione dall’alto, senza primarie online e senza che i numerosi contestatori bloccassero la sua nomina.

 

Non solo il M5s ha problemi a presentare le liste, ma ha anche difficoltà a governare e dare continuità amministrativa nei pochi comuni in cui vince, sempre per gli stessi problemi: penuria di classe dirigente, difesa della purezza e verticismo. I grillini hanno vinto in 17 comuni e il numero non ha portato fortuna. Il primo a saltare è stato Comacchio, con il sindaco Marco Fabbri cacciato per essersi candidato alla provincia. Poi è stata la volta del comune di Gela, con l’espulsione del sindaco Domenico Messinese reo di aver “avallato il protocollo di intesa” con l’Eni. La terza amministrazione a perdere il bollino di garanzia di Grillo è stata quella di Quarto, con l’espulsione del sindaco Rosa Capuozzo per i noti fatti. In bilico c’è anche Parma, nonostante sia la città grillina meglio amministrata, con la sospensione di Pizzarotti per futili motivi (a proposito, decideranno cosa fare prima delle elezioni?). E anche Livorno scricchiola con una maggioranza risicata per l’espulsione di diversi consiglieri e la giunta in bilico con il sindaco Nogarin e l’assessore al bilancio indagati. Non mancano le epurazioni nemmeno in altri comuni come Porto Torres e Ragusa. “La democrazia può partire solo dal basso”, scriveva Grillo otto anni fa nel suo Comunicato politico numero uno. Oggi, più che un augurio sul futuro del Movimento, sembra un epitaffio alle sue speranza di conquistare consenso partendo dalle città.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali