Imprenditori, discontinuità, elezioni. Una chiacchierata con Luca Lotti
Roma. “Vieni pure se vuoi. Ma tanto è inutile, e ormai dovreste averlo capito: io non dico niente”. Sono passati poco più di due anni e mezzo dall’arrivo di Matteo Renzi a Palazzo Chigi e da due anni e mezzo tutti gli osservatori periodicamente si esercitano a definire quali sono i confini e i limiti del cerchio ristretto formato dai suoi collaboratori più fidati e da tutti quei volti che accompagnano quotidianamente la vita politica del presidente del Consiglio. Negli ultimi tempi, Renzi, seppure a volte impercettibilmente, ha scelto di accogliere all’interno del club esclusivo di Palazzo Chigi anche alcuni collaboratori scoperti non solo ai tempi di Firenze (Tommaso Nannicini, per esempio) ma per quanto il premier possa sforzarsi di aprire a nuovi arrivati le porte della presidenza del Consiglio alla fine i corazzieri del renzismo restano due e sono gli stessi da sempre: da un lato c’è Maria Elena Boschi, classe 1981, dall’altro c’è Luca Lotti, classe 1982. Il ministro Boschi, per mille ragioni, non ultima quella di aver dato il nome alla riforma dalla quale dipende il destino del governo, ha accettato di esporsi in prima persona nella declinazione del renzismo, ha provato a diventare l’ambasciatrice del club di Palazzo Chigi in Europa e, anche per scelta di Renzi, è il ministro più in mostra e più da copertina dell’esecutivo. Di Boschi sappiamo ormai quasi tutto, lo stesso non possiamo dire dell’altro corazziere del renzismo. A due anni dall’arrivo a Palazzo Chigi, dopo una vita da capo di gabinetto di Renzi a Palazzo Vecchio, di Lotti si sa quali sono i suoi incarichi ufficiali, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’editoria, segretario del Cipe, ma non si sa nulla o quasi di cosa faccia il braccio destro del presidente del Consiglio, come d’altronde era per il braccio destro di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, Gianni Letta. Nel corso di due anni al governo, zero interviste, tranne una a Repubblica un anno fa sul venticinque aprile e una alla Stampa sulla Grande guerra (Lotti è titolare della delega sugli anniversari nazionali). Nessuna presenza in televisione. Pochi interventi pubblici. Pochi interventi in Aula. Numero ridotto di disegni di legge firmati in Parlamento (il più noto è il Jobs Act sull’editoria). Parecchio lavoro sottotraccia. La domanda dunque è lecita: ma chi è davvero Luca Lotti?
Ci siamo infilati una mattina di fine maggio con lui in un aereo per Cagliari, lo abbiamo seguito per un paio d’ore in un viaggio in Sardegna, abbiamo parlato con lui, lo abbiamo sentito confrontarsi in un convegno elettorale, in un incontro a porte chiuse con alcuni imprenditori iscritti a Confindustria, abbiamo raccolto le sue parole durante un incontro con alcuni giganti della distribuzione e abbiamo messo insieme sul taccuino un po’ di spunti, non definitivi ma comunque crediamo utili, per provare a rispondere alla domanda. Chi è davvero Luca Lotti? E, soprattutto, che ruolo ha nella geografia del renzismo, del governo e del Pd?
Volo Roma-Cagliari, Alitalia, ore 11,30. Pochi minuti alla partenza. Lotti armeggia con il suo telefonino. Consulta le chat su WhatsApp. Si scrive con alcuni pezzi grossi del partito. Il tema di questa mattina è il referendum. Alcuni deputati chiedono spiegazioni per alcune frasi uscite sui giornali. Chi si spende per la formazione dei comitati chiede di essere considerato e valorizzato. Chi chiede di formare un comitato chiede anche un po’ di spazio. Si scrive e ci si confronta. Non tutto, ma qualcosa la si chiarisce. Si smorza. Si smussa. “Non dobbiamo arrivare allo scontro, parliamo, risolviamo”.
L’aereo è pronto al decollo. Il telefonino va in modalità uso in aereo, Lotti sfoglia la rassegna stampa sul telefonino e nel frattempo, a bassa voce, ragiona sui prossimi mesi. Dice che il passaggio sulle amministrative è importante ma non lo preoccupa perché la sfida vera, sulla quale un’intera classe dirigente ha messo la faccia, sarà il referendum costituzionale, e quale che sia il risultato delle prossime amministrative, anche dovesse essere negativo, non ci sarà alcun impatto sulla vita del governo. Lotti, ragionando più ad alta voce, dà l’impressione di essere uno dei volti scelti dal presidente del Consiglio per tentare una pacificazione con le varie istituzioni dello stato e con le varie componenti del partito (alcune delle trattative più delicate vengono finalizzate o iniziate durante gli allenamenti della Nazionale di calcio dei parlamentari, allenata da De Sisti, di cui Lotti è capitano) e da questo punto di vista il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha un ruolo complementare rispetto alla struttura di organizzazione del Pd. Molti accordi locali, soprattutto a sud di Roma, nascono grazie alla mediazione di Lotti e anche le fila dei rapporti con la minoranza del Pd e con gli alleati (Ncd, Sel, Ala) sono spesso tenute non solo dal vicesegretario, Guerini prima ancora di Serracchiani, ma anche e soprattutto dallo stesso sottosegretario. La pacificazione, dice Lotti, è importante ma non va portata avanti a tutti i costi e anche se non lo dice espressamente il ragionamento ha un suo punto di caduta evidente: in vista del referendum costituzionale, quella parte della minoranza del Pd che lavorerà per costruire comitati del no come può sentirsi parte del Pd? Sulla questione delle amministrative, Lotti non fa previsioni, anche se dice di essere ottimista su alcune grandi città sulle quali molti dirigenti del Pd sono meno ottimisti, ma dalle parole del braccio destro di Renzi è evidente che la curiosità di un pezzo del Pd è legata non solo ai risultati del partito ma anche ad alcune scelte che verranno fatte dagli altri partiti e che potrebbero avere un impatto sul futuro della legislatura. Per esempio, si chiede Lotti, cosa farà Berlusconi se in alcuni contesti locali (e non) dovesse essere costretto a scegliere se sostenere un candidato del Pd o uno del Movimento 5 stelle?
Il viaggio continua, Lotti si assopisce, si arriva a Cagliari, il sottosegretario viene preso sottobraccio da alcuni consiglieri regionali e da alcuni sindaci diventati renziani, o almeno così dicono, grazie a una serie di piccole opere sbloccate da Palazzo Chigi sull’aeroporto di Cagliari, e una volta sbarcato in Sardegna, dove nel pomeriggio lo attende il candidato sindaco del capoluogo sardo, Massimo Zedda, il sottosegretario prova a vestire i panni anomali del politico da piazza. A Cagliari, con Zedda, sindaco uscente iscritto a Sel, uno degli ultimi simboli di quella famosa e non riuscita rivoluzione arancione che nel 2011, attraverso le città, avrebbe dovuto cambiare l’Italia imponendo un nuovo modello democratico, Lotti duetta anche con ironia, con il tono di chi si chiede che senso abbia per chi si riconosce nel centrosinistra essere fuori dal perimetro del Pd, e anche per questo ricorda, e Lotti lo dice indirizzando non solo a Zedda, che “il Pd non ha mai smesso di guardare a sinistra, che il Pd è fortemente radicato nel centrosinistra e porta avanti quei valori” e che non bisogna dare l’impressione che le comunali abbiano un rilievo nazionale, “perché non lo hanno, politicamente, non hanno nessuna rilevanza: se ad esempio Zedda ha fatto bene i marciapiedi i cittadini lo rivoteranno. E questo vale a Roma come a Milano”. Zedda capisce la trappola e sorride: “Non dirlo neanche per scherzo che dovrei entrare nel Pd: mi fai perdere voti!”.
Il ruolo di Boschi e Lotti nel mondo renziano
Gli interventi in pubblico di Lotti, come quelli di molti renziani, sono brevi, quasi dei tweet, sono fatti di metafore più che di citazioni (“Sul referendum ci interessano i tre punti”) e contengono, come succede anche al presidente del Consiglio e a Maria Elena Boschi, una caratteristica importante che segna un passaggio cruciale tra il renzismo di ieri e quello di oggi. Un tempo, la narrazione renziana in campagna elettorale aveva una presa sicura e faceva leva sul ciò che non è stato fatto finora e su quello che sarebbe stato fatto da quel momento in poi (“E’ finito il tempo di…”). Oggi, invece, la sfida (difficile) per i Lotti, per le Boschi e per i Renzi è quella di archiviare per quanto possibile il lessico della rottamazione facendo proprio un linguaggio meno semplice ma più importante, e che rappresenta l’unica cifra possibile del renzismo moderno: la declinazione delle virtù della stabilità e non più la declinazione delle virtù dello spazzare via tutto. La rottamazione c’è stata, “in fondo nel 2011 i sindaci outsider che arrivarono a governare le città furono un primo segnale che nella selezione della classe dirigente del Pd c’era qualcosa che non andava”, ora il compito di tutti, Lotti compreso, è spiegare il metodo di lavoro, cosa è stato fatto, cosa verrà fatto e come cambierà l’Italia se verrà data fiducia al club di trenta-quarantenni di Palazzo Chigi. Per questo, vale per Lotti ma vale anche per gli altri esponenti di primo piano del Pd, chi rappresenta il governo oggi si trova evidentemente più a suo agio in quei contesti e in quelle occasioni in cui è possibile confrontarsi con il così detto ceto produttivo. Sono le sedici e Lotti si presenta alla sede di Confindustria. Di fronte a lui una trentina di imprenditori. Tutti o quasi esordiscono con la formula “siamo grati al governo per l’impegno mostrato sulla vita delle imprese” ma è solo l’inizio. Poi arrivano gli appunti, le critiche. Chi rimprovera Lotti per la disattenzione del governo sul tema del Mezzogiorno. Chi chiede un maggiore impegno su Irap e Ires. Chi non condivide la scelta di abbassare le tasse sulla casa piuttosto che sul cuneo fiscale. Lotti incassa, prende appunti, cerca con qualche battuta di conquistare l’attenzione degli imprenditori e a poco a poco ci riesce. Prima rivendicando l’impegno del governo sull’Irap, poi confermando le promesse sull’Ires, infine mostrando tutti i segnali di discontinuità mostrati rispetto al passato dal governo. Il Jobs Act, naturalmente, di fronte al quale gli imprenditori annuiscono, e poi tutto il resto. Lotti riconosce che il sistema delle assunzioni è stato drogato con il meccanismo degli incentivi ma rivendica la forza sistemica della riforma del lavoro. Poi ammette che nella riforma sulla tassazione della casa esiste anche una componente elettorale – ma sfida gli imprenditori a verificare nei prossimi mesi che impatto avrà sui consumi del paese l’abolizione di una tassa considerata odiosa da gran parte del paese. Quindi punta forte sull’idea che la banda larga avrà per questo governo la stessa funzione strategica e di collegamento e di unione del paese che ebbe negli anni Settanta l’Autostrada del sole. Infine sfida gli imprenditori rivendicando due scelte presenti e future. La prima riguarda la cassa integrazione – e Lotti, stavolta senza cercare sguardi complici tra gli imprenditori, dice che il sistema della Cig non sempre funziona e non è la soluzione quando un’azienda è decotta. In conclusione, a proposito di aziende decotte, porta l’esempio del Sulcis come modello pericoloso da portare avanti, con i suoi “incentivi fuori dalla moralità”. Brusii, ma qualche testa annuisce.
Mancano pochi minuti alla fine della chiacchierata e Lotti conclude la sua conversazione parlando del referendum costituzionale con una chiave diversa rispetto a quella tradizionale. Se vince il sì, dice Lotti, ci sarà più governabilità e se ci sarà più governabilità sarà possibile per chi governerà un domani fare riforme anche più incisive rispetto a quelle fatte oggi. “Quando siamo arrivati al governo ci dicevano che l’Italia, senza riformare la Pubblica amministrazione, la giustizia e il suo assetto istituzionale, non sarebbe mai andata da nessuna parte. Due anni dopo, mentre i nostri avversari schiamazzano, noi abbiamo riformato la Costituzione, cambiato la legge elettorale, introdotto un sistema a doppio turno che garantisce stabilità, riformato il lavoro, riformato, anche con i primi decreti attuativi, la Pa, stiamo mettendo mano alla giustizia e sfido io a trovare qualcuno che possa onestamente dire che questo governo non ha fatto qualcosa di importante, di incisivo”. Pausa. “Ricordo ancora cosa ci dicevano mesi fa quando abbiamo provato a imporre un nuovo equilibrio in Europa. Dicevano che eravamo dei ragazzini viziati e inconcludenti e che i grandi del continente ci avrebbero messo a tacere e ci avrebbero commissariato. Oggi i risultati sono diversi. Abbiamo ottenuto quello che chiedevamo sulla flessibilità. Abbiamo imposto il tema dei migranti come un tema di carattere comunitario e non più nazionale. Siamo l’unico partito socialista in Europa in discreta salute. Siamo oggettivamente diventati un modello per molti nostri colleghi. E al referendum costituzionale sono pronto a scommettere che avremo un forte consenso anche fuori dai confini italiani”.
Parole sulla Nazionale, macchina elettorale
Il pomeriggio trascorre veloce. Lotti si infila in una macchina che lo porta vicino a Cagliari. Consulta le agenzie sul cellulare. Alle telefonate preferisce i messaggi. Al collaboratore che lo segue – oggi c’è Alessandro Giovannelli, nella squadra di Lotti ci sono anche Nicola Centrone, Antonio Funiciello, Marco Pucci, più la segreteria Eleonora Chierichetti – chiede novità politiche e poi, curiosamente, chiede anche novità calcistiche. Lotti parla frequentemente di calcio. Gli capita spesso di interessarsi alla Nazionale. Ha un rapporto consolidato con molti presidenti delle squadre italiane, soprattutto con quelli delle piccole squadre, e capita che si interessi in prima persona sul dossier delicato e strategico dei diritti tv. Sull’allenatore della Nazionale Lotti non dice nulla ma riconosce che gli piacerebbe che un giorno ci fosse qualcuno capace di far diventare la Nazionale una squadra bella da guardare. Di più non dice. Pochi minuti in macchina e nuovo incontro. Lotti partecipa ora a un incontro con alcuni giganti della distribuzione. Torna sul referendum e sulle comunali. Scopre che, ad alzata di mano, la platea di fronte a lui è per almeno il 40 per cento contraria alla riforma costituzionale. Nei suoi ragionamenti accenna vagamente al rapporto tra politica e magistratura (“Non ho nulla in contrario a che i magistrati esprimano le loro opinioni, altro è se mettono in discussione il principio di terzietà”) e cerca di portare dalla sua parte il pubblico ripetendo spesso la parola “stabilità”.
Finisce il convegno e Lotti si intrattiene con qualche imprenditore. Chiacchiera, offre i suoi contatti, mette a disposizione il numero di telefono, imposta relazioni che vanno oltre il semplice fundraising e osservandolo si capisce molto delle differenze tra i due corazzieri del renzismo. Boschi è forse il lato più diplomatico del renzismo, la frontwoman che va in televisione e difende in pubblico le battaglie simbolo del governo. Lotti lavora dietro le quinte, se così si può dire, costruisce strategie politiche che sostengono l’azione di governo, prova a risolvere problemi muovendosi in maniera autonoma, a tu per tu, o via WhatsApp, ma gestendo molti dei dossier più delicati del club di Palazzo Chigi ha scelto da sempre un profilo di riservatezza totale. Almeno fino a qualche tempo fa. Per la prima volta, infatti, in questa campagna elettorale, Lotti è stato spedito da Renzi con una certa insistenza in alcune città delicate (ieri era a Napoli, poi a Bologna). Per stringere rapporti, consolidare alleanze e offrire ai candidati sindaco la possibilità di confrontarsi con le principali declinazioni del brand del renzismo. Cagliari, Cosenza, Bologna, Castellammare di Stabia e poi più in là Milano, prima del ballottaggio. In ogni città si parla di amministrative, ma si parla soprattutto di referendum. Boschi e Lotti saranno, seppur da dietro le quinte, i grandi coordinatori della macchina elettorale. Oggi referendaria, domani chissà, forse qualcosa di più.