Marco Pannella (foto LaPresse)

“Romolo Murri. La scelta radicale” - 1994

Quando Pannella difese la scelta radicale del cristiano (scomunicato) Romolo Murri

Marco Pannella
Benedetto Marcucci cede la parola allo stesso Murri, cita proprio fatti e pagine nei quali egli s’applica a demolire scelte storiche e politiche di quella borghesia, e dei suoi eredi, tentando esplicitamente di meglio armare di cultura del diritto e dello Stato le forze espressione dei ceti popolari, del “proletariato”: i partiti dell‘“Estrema” e i cattolici.

V’è una sorta di dettaglio che questo lavoro sembra voler ignorare, che Benedetto Marcucci non aveva messo in evidenza, o colto, fin quando il prof. Lucio D’Angelo – trattando di “Murri radicale” nel Convegno del “Centro Studi Romolo Murri” dell’ottobre 1993 – non ricordò che il sacerdote marchigiano aveva aderito alla massoneria. D’Angelo non disse, per la verità: “il sacerdote marchigiano”; disse: “Murri”. Ma in noi ascoltatori - ne sono certo - l’operazione dei nostri cervelli fu proprio quella: il sacerdote, e scomunicato, e sposato, e anticlericale, e, secondo tanti, poi, fascista, era stato anche e perfino massone. Sulla tonaca aveva indossato il grembiulino, ai riti della messa aveva sostituito o con essi aveva concelebrato i riti massonici. Ed era probabilmente dovuto a questo, dunque, il suo appoggio alla candidatura e sindacatura rivoluzionarie, a Roma, di Ernesto Nathan, Gran Maestro della Massoneria italiana, nel quadro di mutua assistenza di complici se non di compari. A questo e non all’interesse per una grande battaglia popolare di riforma e di buongoverno, di fabiana rivoluzione sociale. Ennesimo avviso di garanzia, dunque, con cui fare i conti; e non più spiccato dalla magistratura calabrese o dal Procuratore Cordova, ma questa volta direttamente dalla Storia?

 


Benedetto Marcucci e Marco Pannella (foto di Twitter)


 

Immagino che questo “dettaglio” non può non aver inferto anche a Marcucci almeno un attimo di inquietudine, di turbamento, financo di sospetto come accade negli innamoramenti donde non si tragga amore e si fan luce e strada, d’un tratto, un volto e un essere ben altri da quelli che ci hanno incantati. E proprio incantevole è questo suo Murri radicale, anche per chi abbia distacco nel contemplarlo e collocarlo accanto agli altri - tanto diversi - che conosciamo, o che crediamo di conoscere, e confrontarlo. Ma lo resta, incantevole, anche dopo questo “dettaglio”, nuovo macigno che si aggiunge agli altri tuttora ostruenti il cammino della conoscenza, della memoria storica? Lo resta, a mio avviso. Lo resta. Anzi, ancor più lo diviene, incantevole, questo deputato non ancora quarantenne, questo Don Romolo, vieto sol perché vietato, da due terzi almeno di secolo. (…) Benedetto Marcucci cede la parola allo stesso Murri, cita proprio fatti e pagine nei quali egli s’applica a demolire scelte storiche e politiche di quella borghesia, e dei suoi eredi, tentando esplicitamente di meglio armare di cultura del diritto e dello Stato le forze espressione dei ceti popolari, del “proletariato”: i partiti dell‘“Estrema” e i cattolici. Così come incalza ministri e Governi, da parlamentare, per farne esplodere, o superare nella direzione giusta, insanate contraddizioni oggettive più che soggettivi tradimenti. (…) Questa ricerca della “parte” radicale di Romolo Murri, e quel che Benedetto Marcucci vi ha trovato e ci espone, non consente già più di tollerare, di lasciare in circolazione, quel “tutto” in cui è stato racchiuso e condannato senza appello per più di due terzi del secolo. Ed è la sua morte civile, in tal modo, ad esser consumata e sostituita con la realtà straordinaria della sua vita, di uomo e di politico.

 

Volevano invece che sapessimo di un Romolo Murri grande solamente per una breve stagione della sua giovinezza; e che tale, probabilmente, sarebbe restato se avesse continuato a coltivare le sue radici cattoliche e le sue prerogative ecclesiastiche; ma che ben presto cede alla tentazione politica e vi si perde, incorre nella scomunica e nell’eresia, nel livore di uno spretato, nel blasfemo matrimonio, nelle altre tentazioni del mondo, tanto da cercare poi una collocazione ed un approdo nell’ordine fascista. Volevano che sapessimo che il vero approdo, invece, Murri lo avrebbe trovato solamente alla vigilia della morte, nella Roma tragica del 1943/44, quando la Chiesa lo riaccoglie. Tutto si precisa, tutto torna: fondatore della FUCI, infaticabile organizzatore di nuove presenze e di nuovi impegni cattolici di sapore non di rado integralista, confortato spesso dal consenso dall’organizzazione ufficiale del mondo cattolico italiano, l’Opera dei Congressi, controllato ma protetto, e amato, da Leone XIII fino alla fine dei suoi giorni, forte di una pratica di obbedienza sempre confermata nelle mille difficoltà che i suoi successi organizzativi ed editoriali gli creavano in Vaticano e fra i clerico-moderati, fondatore della Democrazia Cristiana Italiana, ecco che d’un tratto il sacerdote marchigiano, influenzato dalla eresia modernista, si ribella agli ordini della Chiesa, le si contrappone anche sul piano della politica italiana fino a costringerla a scomunicarlo. Diventa – perfino! – radicale e uno dei leader di quel partito, anticlericale e antireligioso, denso di notabili e di opportunisti. Non è rieletto nel 1913 e finisce dopo la guerra, nel fascismo.

 


Don Romolo Murri


 

E’ questo “tutto” – che abbiamo cercato di sintetizzare – che Benedetto Marcucci nega, e elimina dalla possibilità di continuare ad essere smerciato. Per Marcucci la singolarità possente di Murri si afferma con idee, convinzioni, obiettivi, battaglie, analisi e giudizi che sono rigorosamente vissuti sia nella stagione detta “cattolica”, sia in quella detta (o piuttosto: taciuta, maledetta) “radicale” e, probabilmente, anche in quella…“fascista”. Murri gli appare, in quei lustri, come il più intensamente religioso e laico, riformatore e tollerante, il più integro e militante, il più tenace e lucido degli animatori e degli organizzatori politici e dei cattolici impegnati politicamente. I problemi che hanno dominato l’Italia in tutto il corso del secolo hanno trovato in lui consapevolezze e proposte di soluzioni tuttora rifiutate e attuali. Non lo avessero incredibilmente ancora ignorato, i democristiani che concepivano di rinnovarsi e rifondarsi nel P.P.I., fin nelle assise del luglio 1993 all’EUR, loro - con noi tutti - si troverebbero forse altrimenti che già soddisfatti di troppo poco, e come senz’altre radici che quelle del regime democristiano e partitocratico; e fors’anche i “progressisti” non sarebbero tornati, come sono oggi tornati, a inseguire i cattolici in quanto tali, lì dove ormai da decenni è impossibile incontrarli.

 

Murri è stato finora, certamente, uno sconfitto; o meglio, egli ha in vita sua effettivamente riportato tragiche sconfitte. Ma di lui possiamo, oggi, soggiungere: “finora”. Certo, ottanta anni sono trascorsi. (…) Più spesso, molto più spesso, a Romolo Murri non si rispondeva. Non rispondeva la Chiesa, cui egli chiedeva solamente, per obbedire una estrema volta (mi si consente dire, anche: socraticamente, gandhianamente?) di far conoscere le ragioni e le imputazioni della sua condanna. Non rispondevano il Parlamento e i Governi “democratici” quando egli chiedeva perché non si affrontassero i problemi di una nuova politica ecclesiastica facendone il perno, la leva essenziale, di una riforma sociale, politica, civile della società, e dell’affermarsi del senso dello Stato, del diritto, dei diritti. Su questo, sulla politica ecclesiastica - quando s’era ancora in tempo, nel 1911 - egli ammoniva in un intervento parlamentare (e Sturzo s’illudeva ancora – dieci anni dopo – di poter evitare d’affrontare il problema): “La politica ecclesiastica si può riassumere in questo concetto fondamentale: la borghesia ha compiuto la propria liberazione spirituale, ha conquistato per sé la libertà di coscienza; ma quando venne il momento di continuare quest’opera; di conquistare la libertà di coscienza e la libertà religiosa, anche per le masse, per le quali si trattava soprattutto di un problema di educazione nazionale, la borghesia italiana si è disinteressata interamente dei problemi di politica ecclesiastica”.

 

Non rispondevano. Né rispondono nemmeno ora. Non rispondevano quando, per anni, in ogni dove, egli esigeva i diritti civili e umani, le garanzie di cittadini, anche per i trentamila seminaristi, per le centodiecimila alunne degli istituti medi privati sovvenzionati dallo Stato, per gli insegnanti di religione, per i sacerdoti e le suore, per l’Italia contadina non meno che per quella operaia. E indicava l‘“educazione nazionale” come primo impegno e obbligo di un paese che volesse crescere democraticamente e non cadere in avventure reazionarie. Non rispondevano ma rispose loro la Storia, il Fascismo. Quel che è più, hanno continuato, continuano a non rispondergli. Più spesso, molto più spesso, le risposte erano denigrazione, insulto, sarcasmi, ostracismo, violenza della menzogna. La sua messa a morte parlamentare, e - per certi versi - politica, nel 1913, fu da lui raccontata nella sua Memoria alla Giunta delle elezioni della Camera dei Deputati perché si invalidasse l’elezione del suo avversario Falconi, candidato del Patto Gentiloni. Egli la pubblicò, poi, con il titolo: “Come vinsero i preti a Montegiorgio”, che costituisce la seconda, anch’essa preziosa, parte di questo libro. Se i liberali, i socialisti, i cattolici come Don Sturzo, i suoi altri allievi avessero saputo leggere, con ragionevolezza e senno politici, quelle pagine, quell’anatomia di un delitto, la parte avutavi dalla sinistra, ivi compresa l’Estrema, l’Italia forse sarebbe oggi un altro Paese, altra sarebbe stata la sua Storia. Altro - probabilmente - sarebbe stato quel 1948 in cui - senza necessità e riducendo il valore storico di quella vittoria democratica - inciviltà, intolleranza e illegalità di certo non mancarono.

 

(…) Era quello stesso “idealista”, “astratto”, “messianico”, “impolitico” ad incalzare ogni giorno, su ogni tema, con puntualità meticolosa, con la sua capacità di impegno sociale, ad annotare nel 1913, a proposito del problema dell’emigrazione, e dell’educazione, e dell’alternativa politica e sociale: “Vi ricorderò delle cifre: a Buenos Aires la Germania, la quale non ha che circa ventimila abitanti, spende per le scuole un milione di marchi. L’Italia, che colà ha circa trecentomila abitanti, non spende in sussidi alle scuole, che 25.000 lire”. O che, in polemica con Turati e con i socialisti, e i molti suoi colleghi dell‘“Estrema”, vota il bilancio militare: “Onorevole Turati, noi non potremo qui predicare la pace quando ci siano quelli che di questa predicazione di pace si valgono per preparare la guerra.” Don Romolo Murri è attento, fin dagli inizi della Lega Democratica Nazionale, a che il suffragio universale sia veramente tale, maschile e femminile. Ma, nell’aula di Montecitorio, nel 1912, quando il Governo Giolitti annuncia l’estensione del suffragio da tre a otto milioni di elettori, vota a favore. Ma nel contempo lancia: “Io riassumo l’espressione che ebbi ieri delle parole del Governo in queste parole: l’Italia colta sentendo ormai la sua insufficienza, chiama gli analfabeti a salvare il paese.” Ed era lo stesso (radicale? cattolico? democristiano?) che, già nelle elezioni del 1904, dinanzi al primo massiccio e ufficioso sostegno clericale a Giolitti con l’alibi dei pericoli che venivano da sinistra, aveva scritto: “(…) Ma un pericolo serio minacciava veramente un Paese? Eravamo alla vigilia di una rivoluzione o sicuramente incamminati verso di essa? Lo sciopero generale si risolse in una debolezza per i partiti rivoluzionari (…) Noi ci siamo impegnati in una politica d’ordine - e sappiamo bene che parola vaga sia l’ordine, da Varsavia a Parigi - che potrebbe essere domani antidemocratica, senza essere per questo antisovversiva.”

 

(…) Pressoché tutto quel che Marcucci cita - insomma - s’imprime nel presente, nella memoria, verrebbe qui da ricitarlo. E, spesso, non hanno gran significato le date, la posizione di quel momento, le circostanze. Qui il tempo, il “passato”, ci raggiungono - davvero - come convenzione, dominano come presente, annientano le peculiarità della cronaca, le vane esattezze, tanto la essenzialità murriana le innerva e trasforma. La coscienza di Murri è storia, ed è essa – più che i suoi saggi filosofici, probabilmente – filosofia. Murri vinto, rinnegato, perdente, isolato, livido e vendicativo? Ascoltiamolo: “Non sono mai stato un mistico e non mi sono mai dimenticato del dovere morale; mi sono fatto prete sognando giornali e partiti e larghe influenze civili; ho creduto forse più nella Chiesa che in Dio, senza mai curarmi molto di dogmi e di riti; e pure ho detto fino all’ultimo con sincero raccoglimento la mia messa e avrei continuato, forse, a dirla, se non me l’avessero tolta; avrei voluto esser monaco per una maggiore concentrazione di vita e mi sposerò, fra non molto, con questo medesimo desiderio. Ho cercato nello Stato quello che prima era nella Chiesa, uno strumento d’azione; e la prova continua, ma mi illudo meno ora”. Così scrive nel 1912, fra un discorso parlamentare ed un comizio, un articolo e un viaggio.

 

Nel 1911, aveva quarant’anni. Era deputato radicale. Nel 1898, quando muore Felice Cavallotti, è un giovane prete di 27 anni, appena acclamato dal Congresso cattolico di Padova, forte nella stessa Opera dei Congressi, si accinge a pubblicare Cultura Sociale. La FUCI, da lui fondata, vive ormai la sua vita, “autonoma” per decisione della gerarchia (e sembra morirsene…).
Ebbene, ecco cosa ricorda di quell’anno, cosa rivendica a Falerone, dinanzi agli elettori di quella contrada, nel 1909: “La mia vita politica posso dire cominciò allora con due discorsi ch’io tenni in un’associazione giovanile clericale della quale ricordo lo stupore, commemorando Cavallotti, col proposito fatto nell’animo di essere per tempi ed eventi mutati un suo continuatore.”
Vogliamo una “prova” più pubblica, non contestabile? Torniamo al 1902, al suo celebre “Discorso di San Marino”, citatissimo. Ma, per la verità, Benedetto Marcucci per primo sottolinea, se non vado errato, una frase che è come non udita, non letta, non detta, quindi, fin qui, da altri: “Cittadini d’Italia appartenenti, nella varia gradazione dei suoi partiti politici, ai democratici e, di me almeno e di molti di voi posso dirlo, ai radicali, benché divisi in molte cose dagli altri, che hanno lo stesso nome, il nostro programma politico, se ha per contenuto vaste riforme sociali, nei rapporti esterni con gli altri partiti può essere chiamato il programma della libertà”.

 

A ricevere quel che di Romolo Murri Benedetto Marcucci ci propone e sceglie – poco più di una manciata di concetti, di notizie, di racconti, di citazioni e di parole se rapportata al vastissimo granaio rigonfio delle raccolte di scritti e discorsi - al vecchio militante di oggi, dopo decenni di lotta antifascista, anticomunista, antipartitocratica in difesa del Parlamento e della democrazia, contro il monopartitismo imperfetto che è succeduto al fascismo ed ha toccato il suo apice con gli anni di piombo, quelli dell’unità nazionale, quasi si mozza il fiato. Questa prefazione rischia di proseguire come saccheggio dell’opera del prefato. Per quanto ancora possibile, evitiamolo. Non prima, però, di aver telegraficamente annotato altre attualità, altre urgenze di oggi avvertite e denunciate da Romolo Murri. (…) Del Parlamento: “Una Camera dove la discussione è vita non può vivere che di quello che la divide”. Del governo dei tecnici e degli esperti: “Diffido anche delle loro competenze, anche quando si rivelino, non possono avere che il risultato di persuaderci a sproposito, in quanto cioè ci illuminano molto bene un lato della questione, lasciandoci nell’oscurità intorno agli spunti di essa, donde conclusioni difettose per l’insufficienza delle premesse”.

 

Lo scioglimento anticipato delle Camere, effettuato in grande ed anche oscura fretta il 16 gennaio 1994; la conclusione positiva tanto quanto ardua della campagna referendaria per le riforme istituzionali, economiche e sociali di stampo liberale; la campagna elettorale con l’imprevista sconfitta dei “vincitori” progressisti; il difficile avvio della legislatura e la campagna elettorale per il Parlamento europeo, tutto questo ha comportato ed ha prolungato il distacco dall’impegno assunto di scrivere questa prefazione. Benedetto Marcucci che ne aveva letto le prime pagine, ha approfittato di questo tempo per una sua ricerca sul Murri massone. Ecco, in buona sostanza che cosa in proposito ha accertato e ci riferisce: Murri, con ogni probabilità non fu mai massone. E’ proprio il caso di dire che non tutto il male ( questa lunga interruzione) viene per nuocere! (…) Ecco come questo suo Murri m’è apparso… “incantevole”, vero. Pur nell’umiltà e nella serenità del suo lavoro questo suo Murri ce lo scaglia addosso, così diverso, così drammaticamente coerente, così attuale. E come ci accade a volte per le persone che incontriamo, che ri-conosciamo e amiamo, d’un sol tratto apparentemente di getto, e sappiamo che i connotati comunemente e pacificamente loro atttribuiti, non son veri, non sono possibili, così Marcucci ha reagito e, almeno per questa volta, gli è andata bene. (…)