Milano è stretta
Milano. Svegliarsi la mattina di lunedì 6 giugno, dopo il primo turno delle amministrative, e trovare la conferma di due cose che i milanesi sapevano già. La prima, che i populisti a Milano non sono di casa. I Cinque stelle che minacciano di prendersi Roma, e che a Torino hanno il fiato sul lungo collo di Piero Fassino, qui sono fermi a meno della metà della stima nazionale, un 10 per cento che è una fisiologia da raffreddore della democrazia, altro che una minaccia. Matteo Salvini che a Palazzo Marino c’è cresciuto, che a Milano vive e ha fatto politica, il leghista metropolitano che vorrebbe prendersi la leadership della destra, si è fermato con la sua Lega lepenizzata all’11,7 per cento, due punticini meglio del tragico 2011, ma sempre poco. Del resto la Lega popolana e montagnarda in città non è mai salita molto di più, neanche ai tempi d’oro. L’altra cosa che i milanesi sapevano già è che vogliono un sindaco moderato, poco partitico, possibilmente un manager. Insieme, Beppe Sala e Stefano Parisi hanno raccolto l’82 e mezzo per cento dei consensi, mentre nel resto d’Italia il bipolarismo si squaglia come un gelato al sole della nuova finta rivoluzione del tripolarismo, con l’aggiunta del gusto grillino.
Quello che forse nemmeno i milanesi si aspettavano era di svegliarsi dopo il primo turno con i due candidati al ballottaggio distanziati di 4.938 voti, un soffio. Sala 224.156 voti (41,7 per cento), Parisi 219.218 (40,78). Per rendere l’idea, cinque anni fa al primo turno Giuliano Pisapia era in vantaggio su Letizia Moratti di 42.461 voti (48,5 per cento contro 41,6). Una partita più che aperta: un finale da calci di rigore a oltranza. E che solo qualche mese fa, per la sinistra campione in carica, sembrava dover essere un rigore a porta vuota. Al di là dei conteggi e delle previsioni su come andrà a finire, il risultato così ravvicinato tra i due schieramenti dice un sacco di cose interessanti. E le dice soprattutto a sinistra. Nell’ordine: a Beppe Sala, a Matteo Renzi e al Pd. Per ragioni di fair play con il concorrente in svantaggio, bisogna però cominciare dal centrodestra. Il risultato è andato oltre le migliori previsioni dello stesso Stefano Parisi, che ora sa di avere dalla sua il vento in poppa dell’entusiasmo, che ha galvanizzato anche il suo elettorato. Parisi ha inoltre verificato di avere guadagnato voti dallo scontento, o almeno la disaffezione, dell’elettorato periferico dei quartieri popolari, quello che di solito non va in vacanza a metà giugno. Ha dimostrato che, a Milano, il centrodestra è ancora un’ipotesi di governo, anche se con 50 mila voti in meno del 2011; la tenuta di Forza Italia (20 per cento, con Mariastella Gelmini reginetta di preferenze) serve anche a dimostrare che una sua eventuale amministrazione non sarebbe a trazione leghista. Parisi ha insomma il vantaggio del cavallo di rincorsa.
Il flop della lista Arancione
A sinistra, il primo turno dice invece altre cose. A Beppe Sala, ieri protagonista di una conferenza stampa fiduciosa ma un poco affaticata, dice che la strada è anche più difficile di come pensasse. La sua candidatura non ha convinto tutto l’elettorato a sinistra, e non ha pescato tra i moderati. A Renzi, ieri non “contento” a livello nazionale, dice però che a Milano il suo partito ha tenuto (al 28 per cento, qualche decimale in più di cinque anni fa). Anche se in cinque anni il grande balzo in avanti in una città strategia per il “grande cambiamento” non è avvenuto. Al Pd milanese, il voto dice qualcosa innanzitutto dei suoi alleati. Una buona parte dei voti che sono mancati a Sala (80 mila in meno del 2011) sono quelli che dovevano arrivare dalla famosa “eredità Pisapia”. Sono il flop della lista arancione Sinistra per Milano, che avrebbe dovuto costituire la gamba sinistra della coalizione e che si è fermata al 3,8 per cento, una miseria. Una manciata di voti in più della sinistra-sinistra che correva contro Sala, 3,5 per cento. E’ notevole, e non un caso, che a mancare nel conto del candidato Sala siano soprattutto i voti delle periferie (roccaforti storiche come Niguarda), e che la sinistra abbia perso metà delle municipalità. Significa, forse, che sulle periferie la giunta Pisapia non ha lavorato così tanto bene come, ancora ieri, Beppe Sala era quasi costretto a ripetere, per non scontentare nessuno.
Se sia un grande tradimento, o soltanto un masochistico flop, se lo spiegheranno tra loro. Ma alcune cose sono evidenti. La scelta targata “Pd renziano” di Sala non è stata digerita. La battaglia delle primarie, con la vicesindaco-candidata di Pisapia, Francesca Balzani, tanto aggressiva quanto sterile nell’aprire una questione morale su Sala, ha prodotto una ferita non rimarginata. La fedeltà di quell’area politica a un disegno di sinistra riformista come quello che il Pd cerca di condurre in una città simbolo come Milano sarà da soppesare attentamente, da parte di Renzi. Ieri il premier ha dichiarato che “il ballottaggio sarà bello e Sala ha tutte le condizioni per farcela”. Tra i primi commenti degli osservatori della politica milanese, il più diffuso è questo: Sala ora deve evitare come la peste di “buttarsi a sinistra”, per cercare di recuperare un elettorato che non l’ha scelto, e verso il quale anche l’arma della “paura della Lega”, a questo punto, è spuntata. Dovrebbe cercare di convincere l’elettorato moderato-consapevole, con il programma e magari mettendo in pista subito una bella lista di nomi, che siano anche testimonial della strada che intende fare. Però, il contropiede ce l’ha Parisi.