Gli interessi che spingono le regioni a dire no al referendum
Spesa pubblica incontrollata e assunzione senza concorsi. L’analisi dei contenziosi tra stato e regioni dinnanzi alla Consulta rivela il fallimento dell’articolo 117 della Costituzione.
Già prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, Luigi Sturzo non mancava di ricordare in ogni suo intervento che la forma di stato regionalista avrebbe potuto rappresentare l’adeguato contrappeso alla matrice illiberale e statalista della cultura politico amministrativa delle classi dirigenti nazionali italiane. Le regioni (insieme ai comuni e alle provincie) avrebbero dovuto costituire una pluralità di livelli di governo all’interno dei quali si sarebbero potute esercitare le libertà politiche individuali e l’autogoverno dei cittadini, al riparo dall’invasione tentacolare e dirigista del potere centrale.
L’originaria formulazione del riparto di competenze legislative fra stato e regioni all’interno dell’art. 117 della Costituzione lasciò perplesso il prete di Caltagirone (autentico campione del liberalismo italiano) perché risultavano elencate esclusivamente le materie di competenza legislativa regionale e non già anche quelle statali, cosicché ogni altra competenza residuale si sarebbe radicata in capo allo stato, come in effetti poi avvenne. Probabilmente il fondatore del partito popolare sarebbe rimasto soddisfatto del riparto di competenze sancito dalla riforma costituzionale del 2001 che, rovesciando il criterio di attribuzione della funzione legislativa, ha individuato nelle regioni le titolari di ogni residua competenza al netto di quelle tassativamente attribuite allo stato.
Di certo non sarebbe entusiasta di apprendere oggi, dalla lettura dell’analisi del contenzioso stato/regioni (pubblicato dal servizio Studi della Corte costituzionale nell’aprile del 2015), che le più importanti articolazioni territoriali dell’autonomia e del decentramento della Repubblica hanno coltivato per il tramite delle leggi regionali indirizzi politici fra i più retrivi e populisti, programmi legislativi che senza l’intervento dello stato innanzi alla Corte costituzionale sarebbero diventati realtà giuridiche consolidate. Si va dalle leggi regionali che hanno tentato innumerevoli volte di stabilizzare i precari della pubblica amministrazione senza la celebrazione di concorsi pubblici aperti anche all’esterno, ai provvedimenti legislativi che autorizzano spese pubbliche a carico della amministrazioni senza le necessarie coperture finanziare; dalle norme che hanno tentato di limitare gli effetti della concorrenza e della liberalizzazione in materia di commercio e servizi pubblici, alle disposizioni emanate in violazione del divieto di indebitamento delle pubbliche amministrazioni.
In più del 50 per cento dei casi in cui lo stato ha invocato l’intervento della Consulta contro la legge regionale, quest’ultima è risultata in contrasto con la Costituzione, mentre meno del 20 per cento del contenzioso originato dalle impugnazioni delle leggi statali da parte delle regioni ha dato luogo a pronunce d’invalidità, nella maggior parte dei casi peraltro per violazione del principio di leale collaborazione e non già per l’illegittimità in sé della scelta compiuta dal parlamento nazionale. Propio l’altro ieri la Corte costituzionale, sebbene in occasione di un giudizio azionato in via incidentale, ha riaffermato ad esempio che la spending review, in sé legittima, deve essere attuata con il contributo collaborativo della Conferenza stato, città e autonomie locali.
Non si tratta di casi isolati, ma di una predisposizione politica che interessa le classi dirigenti di pressoché tutte le regioni italiane (sebbene in misura non uniforme all’interno del territorio nazionale) e che non può trovare giustificazione nella presunta ambiguità del riparto di competenze fra stato e regioni, atteso che la Corte costituzionale ha sempre ritenuto chiari e ben definiti all’interno della Carta fondamentale i criteri violati in questi casi dalla legislazione regionale. Alla prova dei fatti l’attribuzione di maggiore autonomia legislativa in capo alle regioni italiane ha sortito troppo spesso effetti diametralmente opposti a quelli che aveva auspicato il cattolico liberale e liberista Sturzo.
Forse è il caso di tenerne conto quando si critica senza fondamento la nuova formulazione dell’art. 117 della riforma costituzionale che attribuisce allo stato, anche in ragione della tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica oltre che dell’interesse nazionale, molte delle materie che sono state sinora assegnate anche alla competenza legislativa delle regioni.